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Nel 2013, durante gli scavi di una villa romana a Moruzzo (Udine), condotti dalla Società Friulana di Archeologia per conto del Comune, è stata rinvenuta un’etichetta metallica con la scritta COMMODO ET CEREALI  CO(N)S(ULIBUS)  VITIS SET(I)NA. I nomi dei consoli riportano all’anno 106 d.C., quando furono acquistate barbatelle che sin dal tempo di Augusto godevano di gran pregio. Provenivano dall’antica Setia, ove si produceva uno dei vini più famosi del tempo, il vinum setinum, celebrato da Orazio, Plinio il Vecchio, Marziale, Giovenale ed altri. La notizia è di estrema importanza ove si pensi al famoso editto di Domiziano del 92 d. C., che secondo lo storico Eusebio proibiva di impiantare nuovi vigneti in Italia e imponeva di estirpare la metà delle viti esistenti nelle province. Svetonio, il più antico biografo di Domiziano, lascia però intendere nella sua opera “De Vita Caesarum” che l’editto non fu applicato: esso creò in Asia Minore, specie ad Esefo, tali reazioni che dovette essere mitigato e poi del tutto abrogato nel III secolo d.C. La necessità di questo editto ha fatto discutere generazioni di storici, alcuni stimano che la decisione sia stata presa per convertire terreni alla coltivazione di cereali, in modo tale da evitare rischi di carestia, mentre i più propendono per la tesi di un provvedimento protezionista, che avrebbe favorito i produttori italici di vino in un momento di grave criticità, quando cioè l'economia iniziava a declinare di fronte alla concorrenza delle province. Da un passo di una lettera di Plinio il Giovane, scritta al nipote nel 107 d.C., sappiamo che il Senato aveva predisposto un decreto per obbligare i senatori delle province ad investire un terzo del loro patrimonio nei terreni italiani perché Roma e l’Italia non erano la stalla di compiaciuti stranieri, ma patria dei Romani. (Un concetto questo che ritorna di attualità con i trattati della Comunità Europea del libero scambio). Anche se non possiamo affermare con certezza che l’area collinare di Moruzzo sia stata oggetto di investimento da parte dei due senatori provinciali, l’etichetta ritrovata dimostra in maniera incontrovertibile un ritorno alla viticoltura in età Traianea, con un investimento in vitigni pregiati. Lo scavo ha prodotto anche le carcasse di quattro bovini, vittime di un’epidemia bovina, sepolti nell’ultima fase dell’insediamento, quando i locali erano già stati dismessi. I resti, sottoposti all’esame del DNA dall’equipe dell’ Università Cattolica di Piacenza in collaborazione con quella dell’Istituto di Genomica applicata dell’Università di Udine, hanno dimostrato che si  trattò di un’infezione epidemica da antrace. Ciò permetterà di studiare l’evoluzione della malattia nei secoli. Il ritrovamento della targhetta di Moruzzo  e gli incontri tenutesi subito dopo presso il Museo Comunale di Sezze con la Società Friulana di Archeologia sono stati l’occasione che mi  spinsero ad una ricerca sul territorio della vitis setina, quella del decantato vinum setinum, l’antico vino cecubo di Appio Claudio, fino ad identificarla tra i numerosi e presunti cecubi con l’esame molecolare, condotto dalla dott.ssa Manna Crespan, del Centro di ricerca per la viticoltura di Conegliano (CRA-VIT), con il supporto dell’Arsial (Ente Regionale di Sviluppo Agricolo del Lazio). Il rinnovato interesse ha dato modo alla vitis setina di tornare a germogliare a Sezze attraverso le aziende vitivinicole di Marco Carpineti e del giovane Marco Tomei, oltre a numerosi estimatori desiderosi di avere una pergola della celebre vite setina. L’Azienda Vitivinicola Marco Tomei ha recentemente promosso un convegno a Sezze e presentato il libro “Il vino di Sezze nell’antichità” realizzato durante gli anni scolastici 2018-2019 e 2019- 2020 da sette alunne del Liceo Classico “Pacifici e De Magistris” diretto dalla preside Anna Giorgi e coordinate dal prof. Giancarlo Loffarelli. L’interesse permane assai vivo anche nel Comune di Moruzzo, dove la Società Friulana di Archeologia si è fatta promotrice di un convegno sulla vitis setina il prossimo 29 febbraio, chiedendo la partecipazione di rappresentanti del Comune di Sezze, del Museo Archeologico e di uno studioso locale dell’emigrazione friulana nelle Paludi Pontine.  

 

 

 

 

 

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Di sera, mi capita spesso, in solitudine, di passeggiare per il Centro storico di Sezze, nei vicoli adiacenti il vecchio Vescovado, in Via della Speranza dove sono nato e cresciuto. Il senso della solitudine mi soffoca,  e ripenso  ai giorni felici e innocenti della mia infanzia. L'aspetto della nostra città e della nostra comunità è cambiato. Le botteghe, che riempivano le stradine non ci sono più. Le uniche voci che si sentono, sono di bambini romeni che giocano a palla o a nascondino, come facevamo noi. L'epopea dei supermercati e degli ipermercati ha svuotato il Centro storico per riversarsi in capannoni periferici pieni di ogni ben di Dio. Una trasformazione epocale. Non esiste più la dimensione della relazione diretta tra chi compra e chi acquista. Con Amazon, poi, sta crescendo la consegna immediata delle merci con un esercito di facchini e di corrieri sottopagati e costretti a ritmi di lavori insostenibili. Il nostro paesaggio urbano si sta sgretolando in maniera senza precedenti. Occorre saper cogliere la portata di questo processo e agire di conseguenza. Se Sezze perde le botteghe, noi perdiamo Sezze per come la conosciamo. Se il nostro Paese perde il Centro storico, tutto diventa periferia. Le botteghe sono un patrimonio che non possiamo perdere. Che fare? Occorre salvare l'anima del Centro storico, che è diventata la vera periferia della città, con l'emorragia progressiva degli abitanti e la chiusura di scuole e di uffici. Dobbiamo pensare e realizzare una nuova economia, fondata sui beni comuni e relazionali. Le botteghe del vicinato e di prossimità sono un baluardo che non dobbiamo e non possiamo perdere. Non solo nel centro urbano ma anche nei quartieri periferici. I negozietti si devono consorziare, devono diversificare l’offerta e specializzarsi. Il mercato giornaliero dei contadini, dispersi nei vicoli del paese, che offrono un bene fresco e insostituibile, potrebbero vendere il loro prodotto (carciofi, broccoletti, cavolfiori, insalate, pomodori, etc. ) in Piazza dell'Erba, con le dovute garanzie igieniche e sanitarie. Gli artigiani (fabbri, falegnami elettricisti, idraulici, etc ) potrebbero costituirsi in cooperativa , riaprire una sede di rappresentanza  e di servizio al centro,  godere di agevolazioni fiscali. Il mercato settimanale, almeno per alcuni merci, potrebbe ritornare a vivere al centro storico. E, a proposito di scuole: perché non trasferire qualche indirizzo delle Scuole Superiori al Centro? Le Scienze umane, per esempio, al Palazzo Comunale in via Pitti, debitamente ristrutturato e messo a norma?  Palazzo che ha ospitato per tanti anni l'Istituto Magistrale in cui i ho insegnato per 12 anni? Del Piano della viabilità, premessa indispensabile di tutto questo discorso, parlerò la prossima volta, a Dio piacendo.  

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