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Chi tace e chi piega la testa muore ogni volta che lo fa, chi parla e chi cammina a testa alta muore una volta sola”. (Giovanni Falcone)

Ci sono silenzi che sono macigni insopportabili.

Ci sono silenzi che rivelano disinteresse, disimpegno, calcolo e complicità.

Ci sono silenzi che anestetizzano e desertificano le coscienze.

Ci sono silenzi che sovvertono principi e valori, travisano il giusto con l’ingiusto, presentano il male come bene, la disonestà e l’abuso come rettitudine e moralità.

Ci sono silenzi che delegittimano più di accuse, calunnie e maldicenze.

Ci sono silenzi che uccidono e lo fanno lentamente, non con la violenza brutale delle armi ma con l’isolamento, l’emarginazione, il costringere a combattere in solitudine battaglie che dovrebbero appartenere a tutti.

Ci sono parole taciute che generano silenzi assordanti e smarrimento.

Mafia è una parola pronunciata raramente in questi nostri tempi difficili. È una assenza non meramente terminologica ma troppo spesso di responsabilità e impegno, racconta inettitudini, insensibilità, abdicazioni, capitolazioni, palesa in alcuni casi mescolanze, contiguità e complicità intollerabili. Tanti, troppi che occupano scranni e posizioni di comando nell’economia, nella politica e nelle istituzioni tralasciano di pronunciarla, tacciono e la mafia, pervasiva e implacabile, divora indisturbata vite e futuro, assoggetta territori e persone, distrugge risorse e benessere.

La mafia prolifera nel silenzio e grazie al silenzio, fa affidamento su adepti, protettori, infiltrati e pedine, giovandosi di riconoscenti e debitori per favori concessi e opportunità elargite, su politici conniventi e collusi cui garantisce consensi, carriere e potere o indifferenti per codardia e quieto vivere, rapidi a voltarsi dall’altra parte, a far finta di non vedere, a evitare di prendere posizione pur di non mettere in discussione se stessi e i ruoli occupati, su imprenditori pronti a scendere a patti, ad accettare di condividere con essa affari e progetti pur di assicurarsi tranquilli guadagni, su quanti vivono ai margini e nella disperazione, impossibilitati a costruirsi un domani libero dai bisogni e abbandonati da uno Stato incapace di offrire risposte adeguate, su quanti si lasciano allettare dal vivere comodo, ossequiati e temuti.

Il silenzio è dunque l’alleato primario della mafia, la quale si serve per prevalere della prepotenza, dell’ingiustizia e della corruzione esercitati su comunità impaurite e asservite, con un senso di appartenenza sgretolato e dalla dignità oltraggiata, lasciate in balia di un potere abusante, fondato su regole di casta e clientelismo che creano una società divisa in oppressori ed oppressi, dove tutti sono tra loro irriducibili nemici al di là dell’apparenza, domina l’illegalità e prevale la legge del più forte.  

La parola è il più grande nemico della mafia se impiegata per svelarne intrighi e misfatti, se è strumento di conoscenza e condivisione capaci di aprire orizzonti, sconvolgere equilibri e abbattere consuetudini incancrenite, se si fa veicolo della cultura della legalità per combattere i comportamenti illeciti, da quelli in apparenza più piccoli e marginali come non mettere il casco in moto o buttare la carta per terra, a quelli più importanti come l’estorsione, la corruzione, il traffico di droga, per ricostruire il senso dell’essere comunità fondata sulla giustizia e sulla consapevolezza di ognuno di essere titolare di diritti e doveri. La mafia prospera dove l’illegalità è considerata normale, una abitudine consolidata, può contare sull’indifferenza e sulla complicità diffusa. Una collettività dominata dall’illegalità non sarà mai libera di progredire ma finirà sempre soverchiata dalla prepotenza di chi gestisce il potere.

Non mi fanno paura le parole dei disonesti, ma il silenzio dei giusti” diceva Martin Luther King e dalla verità di queste parole dobbiamo ripartire se vogliamo insieme combattere la mafia e bonificare il substrato culturale e sociale in cui prospera. Per sconfiggerla occorrono l’onestà, la competenza e la tenacia di tutti, specialmente di quanti ricoprono ruoli e funzioni all’interno delle istituzioni, la capacità di ognuno, come diceva Giovanni Falcone, semplicemente di compiere il proprio dovere. 

Giovanni Falcone non ha mai taciuto, né si è mai mostrato condiscendente di fronte all’illegalità, ma ha esercitato pienamente il proprio ruolo di cittadino e magistrato, lottando contro mafia senza indietreggiare, senza lasciarsi intimorire nonostante i gravi rischi cui esponeva se stesso e i propri familiari, animato da uno straordinario spirito di servizio verso le istituzioni democratiche. È stato tra i primi ad identificare Cosa Nostra come un’organizzazione parallela allo Stato, unitaria e verticistica, in anni in cui ne veniva persino negata l’esistenza e i crimini commessi erano ritenuti conseguenza dei conflitti tra bande criminali comuni contrapposte. La sua intelligenza, il suo rigore investigativo, i suoi innovativi metodi di indagine, divenuti un modello a livello internazionale, la sua capacità di guidare il pool antimafia hanno permesso d’infliggere per la prima volta un colpo durissimo alla mafia, con condanne confermate fino in Cassazione e aprire una fase nuova nella lotta contro la criminalità organizzata. Nella strage di Capaci ha pagato con la vita il suo impegno e il suo coraggio, insieme a sua moglie Francesca Morvillo e agli agenti della sua scorta.     

Giovanni Falcone ci ha lasciato l’esempio di un uomo dello Stato che per lo Stato si è battuto fino alla fine, non senza dolore, amarezze, accuse, rinunce ma certamente senza clamore, con grandissima dignità e, lui sì, con onore.

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