Un sistema si definisce democratico non soltanto in ragione della legittimazione del potere politico mediante il passaggio elettorale, ma anche per l’esistenza di congegni istituzionali, autonomie, equilibri, pesi e contrappesi che, pur ponendosi al di fuori del circuito stretto della rappresentatività e della responsabilità politica, determinano un controllo e una limitazione dei poteri e così realizzano una democrazia piena. In un sistema democratico una simile funzione è esercitata dagli istituti di garanzia, dalla magistratura alle autorità neutrali.
Tuttavia tale elemento caratteristico e distintivo delle democrazie liberali non è affatto consolidato e tantomeno pacifico tra quanti al loro interno sono chiamati all’esercizio del potere politico. Infatti accanto alla concezione autenticamente liberaldemocratica della divisione dei poteri e del primato della legge, cui sono soggetti gli stessi parlamenti, resiste un’idea dello stato in cui domina il principio dell’indivisibilità e della prevalenza della rappresentanza politica, espressione diretta della sovranità popolare e della marginalità degli strumenti di controllo, primo tra tutti la giurisdizione. Questa idea della prevalenza della rappresentanza politica è stata fatta propria e propugnata da alcuni parlamentari eletti in seno alla stessa Assemblea Costituente, incaricata di redigere la Carta Costituzionale, per i quali persino la previsione della Corte Costituzionale, massimo istituto di garanzia, era da considerarsi un’anomalia, una bizzarria rispetto ai percorsi reali ed effettivi della sovranità popolare. Invero una simile concezione è stata prontamente smentita dai fatti. Basti pensare che gran parte della democrazia inveratasi nel nostro Paese è passata attraverso le sentenze della Corte Costituzionale, la quale è stata investita delle questioni dalle ordinanze di giudici di merito.
La magistratura è tra gli istituti di garanzia, previsti dalla Costituzione, più conosciuti, più analizzati e al contempo più caratterizzati da una straordinaria e impetuosa crescita e al contempo più sotto attacco della politica. Le cause di questa espansione funzionale sono molteplici. Sicuramente hanno inciso le modalità in cui sono scritte le leggi, contrassegnate da un ampio margine di compromettibilità, per cui i conflitti anziché essere mediati in sede parlamentare sono delegati o meglio scaricati sul potere giudiziario, l’emergere di grandi fenomeni criminali, come terrorismo, criminalità organizzata, corruzione, effetto sia della mancanza di controlli a monte da parte della politica sia della sua stessa complicità con essi e non ultimo l’affermarsi dell’idea forte dei diritti fondamentali, rispetto ai quali la garanzia della politica è ritenuta inadeguata e inefficace perché legata agli interessi contingenti delle maggioranze.
A ben vedere la crescita della funzione della magistratura nel nostro ordinamento è scritta nella stessa Costituzione. L’articolo 101, sancendo il principio della fedeltà del giudice alla legge, non codifica l’antico mito della giurisdizione puramente applicativa e come potere nullo. Quando nella norma leggiamo che “i giudici sono soggetti soltanto alla legge”, l’accento va messo sulla parola “soltanto”, la quale statuisce non tanto il principio dell’obbedienza alla legge, quanto piuttosto quello della disobbedienza a tutto ciò che legge non è: il “palazzo”, i potentati economici, le gerarchie interne della magistratura, l’interpretazione della legge imposta dall’alto.
I Costituenti mediante questa norma si sono fatti interpreti ed artefici di una vera e propria “rivoluzione culturale”, dai risvolti concreti riguardo le modalità con le quali la magistratura si è relazionata con la nostra Carta fondamentale. Infatti se è vero che ai giudici non compete pronunciarsi sulla costituzionalità delle leggi, tuttavia attraverso il giudizio di “non manifesta infondatezza” delle sollevate questioni di costituzionalità, gli stessi sono il tramite attraverso cui giungono “al giudice delle leggi”.
La giurisdizione si caratterizza pertanto per essere un luogo privilegiato di resistenza all’illegittimità della legge, la quale non è più un punto statico ed impone l’abbandono da parte della magistratura dei caratteri meramente burocratici e funzionariali. Essa inoltre non è il semplice manovratore e smistatore di tale compito, ma nell’esercizio della funzione giurisdizionale è chiamata a leggere le norme ordinarie nel cono di luce della Carta fondamentale e a scegliere tra le diverse interpretazioni quella conforme alla stessa, che si concretizza nella sovraordinazione del piano normativo costituzionale rispetto a quello ordinario.
Il rapporto tra giudice e Costituzione, il potere di sollevare le questioni di illegittimità costituzionalità spettante a tutti i magistrati, da quelli più grandi a quelli più piccoli, ha contribuito a creare una coscienza egualitaria, favorendone l’affermazione anche all’interno della stessa magistratura. Tale crescita del ruolo e della funzione della magistratura non è avvenuta senza problemi, errori e distorsioni, a volte anche gravi ed assolutamente da espungere, ma ha anche portato ad un allargamento della sfera dei diritti, al perseguimento di una uguaglianza sostanziale dei cittadini ed è stata garantita dall’effettività della sua indipendenza dagli altri poteri dello Stato.
Gli attacchi feroci all’autonomia della magistratura e la sua delegittimazione soprattutto negli ultimi decenni, sono effetto dell’affermarsi dell’idea della prevalenza della rappresentanza politica e di una idiosincrasia ad ogni forma di controllo da parte del potere politico, nel presupposto costituzionalmente erroneo che la legittimazione del voto elettorale possa costituire un viatico che esclude ogni forma di controllo di legalità e di rispondenza degli atti posti in essere ai principi costituzionali.
L’introduzione della separazione delle carriere, mediante la legge di riforma costituzionale approvata in questi giorni dal Parlamento, sancisce una rottura pericolosa degli equilibri costituzionali e una messa in discussione del ruolo e della funzione del potere giudiziario come potere di controllo all’interno dell’ordinamento. Si tratta di un vulnus pericolosissimo ancor più che la nostra Costituzione non assicura espressamente lo stesso status per la magistratura requirente e per quella giudicante. La separazione netta ed assoluta poi anziché potenziare la cultura della giurisdizione e puntare ad un sempre più profondo inserimento del pubblico ministero in essa, porterà presto o tardi all’assimilazione del suo operato alle logiche della polizia, a metterne in discussione l’indipendenza e di fatto al suo assoggettamento al potere esecutivo con conseguenze gravissime per la tutela dei diritti e la libertà dei cittadini.