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Domenica, 08 Giugno 2025 06:02

Sul ripetitore ai Colli il Comune tace

 

Riceviamo e pubblichiamo un comunicato stampa del Comitato Colli per la salute pubblica, relativo all'installazione di un ripetitore di telefonia mobile in località Colli.

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Siamo avvezzi a vedere consiglieri comunali che abitualmente si postano per rivendicare pure la sostituzione di una lampadina e che poi tacciono e si dileguano quando si installa un ripetitore dalle dimensioni considerevoli, che ha messo in allarme l’intera comunità dei Colli.

Il Comune di Sezze è ricorso ad attività procedimentali politicamente assai criticabili: una pubblicazione degli atti durante le festività natalizie, nessun coinvolgimento dei cittadini, nessuna comunicazione tramite social o a mezzo stampa. Nessuno questa volta si è precipitato a rivendicare l’opera, anzi uno ad uno  tutti si sono dileguati. L’esperienza ci insegna che, quando ci si comporta in questo modo, gatta ci cova. Noi non sappiamo se l’iter amministrativo sia stato rispettato e la normativa che regola l’argomento pure, ci auguriamo di si. Sappiamo, però, che il Comune ha rotto un principio, quel filo che unisce amministrati e amministratori e che orienta l’attività amministrativa a favorire la partecipazione e la trasparenza. Abbiamo chiesto all’Amministrazione comunale l’accesso agli atti per poter visionare e verificare se tutto è stato fatto a regola d’arte, se norme e regolamenti comunali sono stati rispettati. Pensavamo che il Comune si sarebbe precipitato a soddisfare la nostra richiesta, invece no, si è trincerato nella burocrazia. Insisteremo per vedere gli atti e non demorderemo nella nostra battaglia con il sostegno della popolazione.

Non si può accettare l’idea che ogni compagnia telefonica possa installare a suo piacimento ripetitori giganti, già ne sono stati installati due, deturpando un territorio che nell’immaginario collettivo è riconosciuto come “Il giardino di Suso” e che tutto avvenga senza che l’amministrazione avverta l’esigenza di discuterne con i cittadini e nel consiglio comunale. Si predica bene e si razzola male. Si chiede il voto sulla partecipazione e sul coinvolgimento dell’associazionismo e poi si va da tutt’altra parte. Noi torniamo a sollecitare che al più presto si mettano a disposizione i documenti, che si apra un confronto con la cittadinanza e si convochi un consiglio comunale aperto affinché la materia sia di dominio pubblico e perché i cittadini si riapproprino delle prerogative e dei diritti nel territorio in cui vivono. 

Pubblicato in In Evidenza

 

Il Decreto Legge 11 aprile 2025 n. 48 è legge dello Stato.

 
Il Parlamento a trazione meloniana ha approvato tra le durissime proteste delle forze politiche di opposizione un’autentica mostruosità giuridica, figlia della cultura reazionaria e autoritaria delle destre oggi al governo, totalmente estranea, avulsa o comunque indifferente ai principi democratici e liberali che ispirano la nostra Carta Costituzionale.
 
Preoccupa molto lo scivolamento progressivo del nostro ordinamento giuridico-istituzionale verso un sistema sempre più restrittivo della sfera dei diritti e delle libertà democratiche, verso insomma una nuova forma di stato etico, in cui l’istituzione statale è il fine ultimo a cui devono tendere le azioni dei singoli individui, nonché la realizzazione concreta del bene universale. Lo Stato è fonte di libertà e norma etica per il singolo e la sua condotta non può essere oggetto di valutazione morale da parte dell’individuo, ponendosi come fine supremo e arbitro assoluto del bene e del male.
 
Tale concezione dello Stato, e conseguentemente della posizione e del ruolo dei cittadini all’interno dello stesso, ha fornito storicamente il substrato ideologico per l’affermazione dei regimi totalitari del secolo scorso, fascismo e nazismo innanzitutto ma non solo, e rappresenta un rischio concreto anche per il nostro tempo. Il contesto sociale, economico e culturale in cui viviamo è sicuramente diverso dal brodo di coltura in cui in passato i germi avvelenati dei totalitarismi hanno attecchito, si sono sviluppati, sono cresciuti e hanno prodotto i loro frutti avvelenati, ma non dobbiamo sottovalutare i segnali preoccupanti di un loro riproporsi con forme diverse e modalità originali, con un’affermazione mediante per lo più non atti eclatanti e grandi stravolgimenti, anche se comunque parimenti preoccupanti e pericolosi.            
 
Pertanto l’approvazione del Decreto Legge Sicurezza rappresenta una sconfitta dello stato di diritto e soprattutto l’ennesimo tassello di un progetto più complessivo, portato avanti dalle destre al governo, volto a ridisegnare completamente l’architettura giuridica dello Stato, la sua funzione e il rapporto dei cittadini con le istituzioni.
 
Nel complesso, le norme del disegno di legge che intervengono sulle disposizioni penali destano forte preoccupazione, in quanto l’ampliamento del ricorso al diritto penale confligge con i principi di proporzionalità e sussidiarietà ed opera in funzione essenzialmente simbolico-comunicativa, senza che ciò significhi assicurare strumenti dotati di maggiore efficacia nella tutela della sicurezza individuale e collettiva. Queste norme segnalano un ulteriore spostamento del baricentro delle riforme legislative verso un diritto penale d’autore che si traduce nella repressione di condotte che esprimono dissenso, emergono da contesti di marginalità sociale e denotano un pericoloso scivolamento verso una gestione securitaria dell’emergenza carceraria”. Ad esprimere un giudizio così tranciante sulle norme contenute dapprima nel disegno di legge presentato dal governo e in seguito trasformate nel Decreto Legge, approvato nei giorni scorsi dal Parlamento, non è un gruppo di facinorosi estremisti, ma il Consiglio Direttivo dell’Associazione Italiana dei Professori di Diritto Penale che rappresenta circa duecento professori. Si tratta di una valutazione marcatamente negativa che va ad aggiungersi a quella espressa dall’Associazione Nazionale Magistrati, dall’Unione delle Camere Penali nonché da un cospicuo numero di accademici giuspubblicisti che hanno aderito all’appello promosso tra gli altri da tre Presidenti Emeriti della Corte Costituzionale, Ugo De Siervo, Gaetano Silvestri e Gustavo Zagrebelsky.
 
Il carattere illiberale, discriminatorio e a tratti criminogeno del cosiddetto decreto legge sicurezza è riuscito a mettere d’accordo giuristi di ogni orientamento tecnico-culturale e la ragione risiede nel fatto che lo stesso è espressione di una linea politico-criminale autoritaria che si manifesta almeno su tre piani.
 
Il primo piano riguarda il potenziamento della tutela dei pubblici ufficiali nello svolgimento delle loro funzioni o più esattamente nella previsione di una loro ipertutela a fronte di un restringimento simmetrico della sfera dei diritti e delle libertà dei cittadini. Le nuove aggravanti introdotte per i delitti di violenza e resistenza a pubblico ufficiale suscitano seri dubbi di legittimità costituzionale sia per l’irragionevole disparità di trattamento nel caso in cui ad usare violenza o a fare resistenza non sia un comune cittadino ma un altro pubblico ufficiale, sia perché l’aumento della pena fino alla metà è incompatibile con il principio della proporzionalità delle pene.
 
Il secondo piano riguarda la scelta repressiva di diverse forme di dissenso. Spicca in proposito la previsione del nuovo delitto di “rivolta all’interno di uno stabilimento penitenziario”, al quale si affiancano il delitto di rivolta in un Centro di Permanenza per il Rimpatrio o in un Punto di Crisi, i cosiddetti Hot Spot, destinati al soccorso e alla prima accoglienza dei migranti, rintracciati in seguito all’attraversamento irregolare delle frontiere o ai salvataggi in mare. Insomma alle condizioni disumane delle carceri e dei centri per migranti il governo risponde con la repressione, elevando l’ordine e la sicurezza carceraria a valore preminente dell’istituzione penitenziaria in completo spregio dei principi di rieducazione e di reinserimento sociale sanciti dalla nostra Costituzione. A tutto ciò si aggiunge il fatto che il Decreto Legge eleva ad illecito penale condotte di protesta pacifica e fa diventare reato la disobbedienza civile.
 
Il terzo piano infine riguarda la presenza nel Decreto legge di deviazioni dal diritto penale del fatto, inteso come offensivo di un bene giuridico, ad un diritto penale d’autore, un diritto penale cioè che guarda non a ciò che la persona compie ma a quello che la persona è, con una qualificazione della stessa secondo stereotipi più o meno plausibili. Le nuove norme puntano l’arma della pena carceraria in particolare contro le donne di etnia Rom, alle quali si imputa di essere autrici di frequenti borseggi e di sottrarsi al carcere attraverso gravidanze e maternità e le previsioni in esse contenute palesano un’indiscutibile violazione dei principi costituzionali in tema di uguaglianza e di tutela della maternità, delle Regole Penitenziarie Europee, adottate dal Consiglio d’Europa e delle Regole delle Nazioni Unite per il trattamento delle donne detenute.
 
Le criticità evidenziate costituiscono solo una minima parte di quelle rilevabili nelle nuove norme approvate dal Parlamento e la Corte Costituzionale inevitabilmente sarà chiamata nei prossimi mesi a pronunciarsi sulle stesse, cancellandole o comunque ridimensionandone ampiamente portata ed effetti concreti.
 
Al nostro Paese serve la certezza del diritto e non usare l’arma della legislazione per alimentare la bulimia punitiva, strumentale soltanto a garantirsi il consenso ma priva di reale efficacia preventiva e di una adeguata garanzia della sicurezza dei cittadini.
 
Pubblicato in Riflessioni