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Una lettera per te oggi la scrivo io, mio caro amico Bruce.

È già da qualche settimana che ascolto e riascolto il video musicale di Letter to you, il brano portante del tuo ultimo album che uscirà oggi 22 ottobre 2020, con lo stesso titolo, in tutto il mondo. Lo acquisterò e lo ascolterò tutto attentamente, te lo prometto, intanto ti racconto qualche mia impressione su questo ennesimo piccolo gioiello.

Mi presento: in questi ultimi 40 anni, nonostante io sia nato e cresciuto dall’altra parte del tuo mondo, non troppo lontano da quel Vico Equense da cui partirono i tuoi avi Zerilli e Sorrentino nel secolo scorso, non ci crederai ma tu sei stato una presenza costante nella mia vita. Ho atteso l’uscita dei tuoi album come si aspetta il ritorno di un amico, il proprio compleanno o la nascita di un neonato in famiglia. Sono stato anche spettatore di 6 tuoi concerti live in Italia, ho visto molte tue performance in DVD, ho apprezzato la tenerezza di Springsteen and I, mi sono gustato le numerose interviste e i più recenti live trasmessi in tv, anche la serie Springsteen on Broadway su Netflix, ed ho letto una ventina di libri a te dedicati, oltre alla tua autobiografia Born to run, uscita nel 2016.

Una volta, solo una volta, ho osato cantare in pubblico la tua Dead man waling durante un evento pubblico organizzato a sostegno di un condannato a morte negli USA.

Le tue canzoni hanno accompagnato tutta la mia crescita, fin da adolescente le ho sempre ascoltate avidamente, cercando di tuffarmi nel tuo personalissimo sound e capire bene il significato dei tuoi testi. E poi riprendere ancora le canzoni, anche quelle più vecchie, quasi da studioso, per cogliere tutte le tessiture musicali dei tuoi amici della E Street Band e a scovare altre chiavi di lettura e tutti i riferimenti dei tuoi versi, anche i più nascosti fino a farli sedimentare dentro di me. Anche adesso, a 58 anni compiuti, ti ascolto sempre, non posso fare a meno delle tue vecchie canzoni e aspetto con ansia ogni tua nuova mossa, anche quelle scritte con profondo senso civico durante le vigilie elettorali da Hard times negli States. Non è successo solo con te, sia chiaro, ho altri “amici” autori musicali, soprattutto italiani, che non ho perso mai di vista e che sono stati - e lo sono ancora – i punti di riferimento costanti, i fari da non perdere nella navigazione della vita. Conosci Fabrizio De André?

Mi hai emozionato anche stavolta con Letter to you, hai colto nel segno col tuo sguardo sempre affilato e attento alle cose semplici ed importanti della vita. Dopo anni di dischi e di esibizioni in millanta concerti in giro per il mondo in cui hai invitato i giovani a guardare senza paura il buio della notte e incoraggiandoli affinché inseguissero i propri sogni, qualunque tipo di sogno, perché siamo tutti nati per correre in un altrove più roseo, dopo averci presentato i tuoi normalissimi ed umanissimi eroi just for one day alle prese col vortice della difficile quotidianità ma senza abbandonare mai la speranza, dopo averci invitati a salire a bordo del treno che ci porta verso un luogo migliore in cui aspettare fiduciosi altre serene ed assolate giornate, da un po’ di tempo hai iniziato a cambiare prospettiva e volgere lo sguardo anche altrove, sarà il tempo che passa...

Anche tu sei cambiato in questi anni, si vede anche dai tuoi capelli sempre più radi, stai invecchiando, càpita (non a tutti) nella vita caro vecchio amico fragile, così ti sei raccontato con molta onestà e franchezza nella tua autobiografia. Ti volti indietro sempre più spesso e prendi atto drammaticamente che molti dei tuoi amici di gioventù, tra cui alcuni dei tuoi cari e fraterni musicisti, non sono più lì con te a condividere musica e vita negli studi di registrazione e durante le tournée in giro per il mondo.

E allora scrivi lettere, lettere musicali che hanno il colore dolce/amaro di un’intimità fraterna ormai perduta, lo fai con un calore che arriva a riscaldare anche i nostri cuori di blood brothers.

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“Neath a crowd of mongrel trees, I pulled that bothersome thread got down on my knees, grabbed my pen and bowed my head, tried to summon all that my heart finds true. And send it in my letter to you”

(Sotto un folto intreccio di alberi ho tirato via quel filo fastidioso e mi sono inginocchiato, ho preso la penna e ho chinato la testa, ho cercato di evocare tutto ciò che il mio cuore trova vero. E inviarlo nella mia lettera per te).

Sei da solo anche tu in questi momenti, non c’è più Clarance a sorreggerti come nella foto copertina più famosa di sempre, sei faccia a faccia con le assenze che non avresti mai voluto percepire. Anche Danny è volato via a suonare le sue tastiere altrove…due pietre miliari della prima E Street band. Una lettera per molti.

 

“Things I found out through hard times and good I wrote 'em all out in ink and blood, dug deep in my soul. And signed my name true. And sent it in my letter to you”

(Cose che ho trovato attraverso i tempi difficili e i buoni, le ho scritte tutte con inchiostro e sangue, ho scavato nel profondo della mia anima. E ho firmato col mio nome vero. E l’ho inviato nella mia lettera per te).

Tempi difficili e buoni, come càpitano a tutti noi, ti capiamo Bruce. E quando le persone che vorremmo avere accanto ci mancano da toglierci l’aria, allora scriviamo lettere, per lo più immaginarie. Tu Bruce le scrivi poeticamente in musica, con sangue e inchiostro, e le firmi col nome vero, quello da uomo in carne ed ossa più che da personaggio di copertina.

 

“I took all the sunshine and rain, all my happiness and all my pain, the dark evening stars and the morning sky of blue And I sent it in my letter to you”.

(Ho preso tutto il sole e la pioggia, tutta la mia felicità e tutto il mio dolore, le stelle della sera oscura e il cielo blu del mattino. E le ho inviate nella mia lettera per te).

 

“In my letter to you I took all my fears and doubts, in my letter to you all the hard things I found out. In my letter to you all that I found true and I sent it in my letter to you”.

(Nella mia lettera per te ho preso tutte le mie paure e dubbi, nella mia lettera per te tutte le cose difficili che ho trovato. Nella mia lettera per te tutto quello che ho scoperto di vero e l’ho inviato nella mia lettera per te).

 

Chi di noi non ha un amico ormai andato a cui scriverebbe volentieri una lettera affettuosa?

Tutti capiamo intimamente di cosa ci vuoi parlare con Letter to you, lo abbiamo provato sulla nostra pelle il tuo stesso sentimento, l’affetto verso qualcuno che non vedremo più camminare al nostro fianco.

 

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Adesso ti sei messo davvero a nudo, Bruce. Tutte le esperienze di vita terrena, buone o meno buone, quelle che alcuni dei tuoi cari non possono più provare sulla loro pelle, quelle che adesso sei costretto a vivere nonostante la loro mancanza, padre, amico, fratello o altro, tu le raccogli in una splendida lettera-canzone e la invii a loro come segno di empatia e di affetto eterno. Come a dire: “Carissimo amico, qui il mondo va come sempre: alti e bassi, mari agitati e voli spettacolari…manchi solo tu”.

 

Qualcuno potrebbe storcere il naso e dire di non amare particolarmente questa tua vena malinconica del 2019 (l’album è stato inciso a novembre 2019), questo indulgere in sentimenti da autunno della vita, ma basterebbe guardare bene nei tuoi dischi, mettere da parte (solo per un attimo, per carità) i tuoi grandi successi festosi e ottimistici ed ecco affiorare un po’ ovunque germogli seminati qua e là diretti all’anima, dritti al cuore più intimo di ognuno di noi ascoltatori. Se provassimo a riascoltare attentamente Jungleland, Racing in the street, The ghost of Tom Joad, You’re missing, New York city serenade, I’m going down, solo per fare qualche titolo, scopriremmo che oltre alla versione “spritz” in cui canti, salti, balli e scherzi gioiosamente per 4 ore nei tuoi concerti, potremmo immaginarti da solo con la chitarra, nel chiuso delle tue stanze, quando ti abbandoni a ricordare, a ripensare nostalgicamente a persone e avvenimenti ormai passati. È così che ti viene la voglia di scrivere lettere e nuove canzoni che completano le gemme della tua corona dorata, fatta di canzoni che rimarranno per tutti sempreverdi sempre pronti a regalare colore alle nostre giornate, con qualunque sentimento ci apprestiamo a viverle? Io ti vedo così, ti immagino debole e forte allo stesso tempo, imbracciare la chitarra e dare parole al tuo cuore, alla tua testa.

 

Con questo nuovo album spero davvero che tu possa riproporci di nuovo anche le sonorità più sanguigne, quelle da cantare a squarciagola tutto insieme, che in tutta sincerità erano mancate nelle ultime tue produzioni, ci faresti davvero un bel regalo, uno squarcio di luce in questo duro 2020.  Dall’alto dei tuoi 71 anni festeggiati il mese scorso - proprio in quel giorno ci siamo sposati io ed Alessandra, 25 anni fa e nella partecipazione per gli invitati c’era una frase di una tua canzone, pensa un po’… - e portati splendidamente, nonostante qualche ritocchino ringiovanente, sai ancora far centro nei cuori di noi innamorati tuoi fans.

 

Lunga vita my oldfriend Bruce, prenditi cura di te e stammi bene, ti ringrazio ancora per tutto quello che hai scritto e cantato, lo dico anche a nome dei mille e mille tuoi fedeli amici italiani: Our love is real.

Pubblicato in Eventi Culturali
Domenica, 18 Ottobre 2020 05:18

Una vita spesa bene

Ci sono storie che meritano di essere raccontate, luci accese nel grigiore quotidiano che colorano di speranza il futuro. Ci sono persone in apparenza normali, ordinarie, giudicate insignificanti, che passano inosservate ai disattenti e ai superficiali, dotate invece di una forza sorprendente, capaci di toccare l’intimo di quanti le incontrano, di arrivare con immediatezza e semplicità nel punto di congiunzione tra mente e cuore, di mettere in discussione gli assetti ossificati dei vissuti personali, di orientare con la testimonianza del loro essere e vivere le scelte di quanti camminano loro accanto e perfino di cambiare il corso dei grandi avvenimenti umani.

In questi giorni la faccia sorridente di Carlo Acutis ha campeggiato sui social, della sua storia si sono occupati giornali e notiziari televisivi perché il 10 ottobre 2020 è stato proclamato beato: è il primo santo millenials. Definizione efficace dal punto di vista comunicativo, ma che forse non gli rende giustizia in pieno. Voglio soffermarmi sull’avventura umana di questo ragazzo nato nel 1991 e morto a soli 15 anni il quale, nonostante la brevità del tempo vissuto, non ha rappresentato una meteora, una folata di vento che si è dispersa nella dimenticanza, anzi ha segnato e continua a segnare la vita non solo dei familiari e di quanti lo hanno conosciuto e amato, ma anche di tanti ragazzi e giovani d’ogni parte del mondo e comunque è un interrogativo incessante a prescindere da punti di vista e convincimenti personali, dal credere o meno in Dio.

Chi è Carlo Acutis?

È un ragazzo cresciuto a pane e internet, come tutti i ragazzi del nostro tempo. Porta il nome del nonno, patron della Compagnia di Assicurazione Vittoria e nasce a Londra, dove i genitori si erano momentaneamente trasferiti poiché il padre all’epoca era manager di una banca d’affari. Ritorna con la famiglia a Milano e qui frequenta le scuole. Gioca a pallone, suona il sassofono, fa trekking in montagna, si diverte con i videogiochi, ama i film polizieschi, gira filmini con protagonisti i suoi cani e gatti e va in pizzeria con gli amici. Frequenta con profitto il liceo milanese dei gesuiti “Leone XIII” e gli amici lo amano per l’allegria che porta alla compagnia, anche se non cerca lo sballo ed è sempre misurato nei suoi sentimenti e nei suoi slanci. È un genio dell’informatica. Fin da piccolo gioca a fare lo scienziato informatico con tanto di camice bianco. Realizza video, fa montaggi con la sua telecamera, confeziona riviste online e progetta programmi per il computer. Studia sui manuali specializzati in uso nelle facoltà di ingegneria informatica e da autodidatta diventa un programmatore sempre più esperto. Tuttavia nella vita di Carlo Acutis il posto fondamentale è occupato dalla fede cristiana, che vive in modo profondo e radicale. È un innamorato di Dio. Manifesta questa sua inclinazione fin dalla più tenera età, tanto che chiede ed ottiene di fare la prima comunione a 7 anni anziché a 10, come avviene normalmente, partecipa alla Messa ogni giorno, prega il rosario e trova il tempo per l’adorazione eucaristica quotidiana, convinto che quando “ci si mette di fronte al sole ci si abbronza... ma quando ci si mette dinnanzi a Gesù Eucaristia si diventa santi”. Probabilmente la sua frase più famosa è: "L’Eucaristia? E’ la mia autostrada per il Cielo!". Utilizza le sue capacità informatiche per essere testimone della fede sul web, diventa un influencer di Dio. È ammirato e stimato dai suoi compagni di scuola e tra gli amici anche chi lo avversa e lo prende in giro per la sua fede, finisce per restarne affascinato, per farsi attrarre da lui. Carlo non è un alieno, ma vive nel suo tempo profondamente e concretamente, sforzandosi di essere se stesso, senza nascondersi, senza vergognarsi e senza cedere alla tentazione di fare proselitismo. Testimonia il suo essere cristiano semplicemente con la sua vita quotidiana.

Nel suo quartiere lo conoscono tutti. Quando passa in bicicletta si ferma a parlare con i portinai dei palazzi, molti dei quali sono stranieri e di religione musulmana e induista. Racconta loro di sé, della sua vita e della sua fede con semplicità e tutti ascoltano volentieri quel ragazzino così simpatico e affabile. A pranzo fa mettere in dei contenitori il cibo che avanza e li distribuisce ai clochard del suo quartiere. Con i risparmi personali compra un sacco a pelo per il clochard che incontra abitualmente quando va nella chiesa di Santa Maria Segreta, gli altri li dona ai Cappuccini di viale Piave che hanno una mensa per i poveri e i senzatetto, dove presta anche servizio come volontario. Rajesh il collaboratore domestico che vive in casa con la sua famiglia è induista, ma resta folgorato da lui e decide di convertirsi al cristianesimo. Di Carlo Acutis dice: “L’ho sempre considerato fuori dal normale perché un ragazzo così giovane, così bello e così ricco normalmente preferisce fare una vita diversa”.     

Ai primi di ottobre del 2006 Carlo Acutis si ammala. Sembra una banale influenza, ma le sue condizioni si aggravano rapidamente e viene ricoverato all’Ospedale San Gerardo di Monza. Gli viene diagnosticata una leucemia fulminante, il tipo peggiore che non lascia scampo. Muore il 12 ottobre 2006. Il giorno dei suoi funerali la chiesa è gremita di persone che la famiglia non conosce e non ha mai visto prima: poveri, clochard, stranieri e tanti bambini, i quali si avvicinano al papà e alla mamma e parlano loro di Carlo, di tutto quello che ha fatto, testimoniano la sua vita. Viene sepolto ad Assisi, come aveva espressamente chiesto. Dopo la sua morte ai genitori iniziano ad arrivare migliaia di lettere di persone di vogliono sapere qualcosa di più di Carlo. È un’onda montante e inarrestabile: tanti giovani lo ammirano, cambiano vita e cercano di imitarlo.

Personalmente detesto le agiografie, i racconti edificanti, certo devozionismo che considero fuorviante e deleterio. Tuttavia sono rimasto affascinato dalla storia di Carlo Acutis, così lontano dagli stereotipi con cui siamo soliti rappresentare i ragazzi e i giovani del nostro tempo, il quale ha impiegato bene la sua vita impegnandosi nel volontariato e spendendosi per gli ultimi e i diseredati con assoluta generosità. Sono convinto che i nostri giovani hanno potenzialità enormi, sono capaci di grandissime cose anche fuori dall’ordinario, ma troppo spesso si trovano a fare i conti con molti di noi, cattivi maestri e pessimi esempi, credenti e non credenti in par misura. Penso che Carlo Acutis sia un modello a cui guardare, al di là delle convinzioni personali in materia religiosa e dei tanti pregiudizi che troppo spesso ci condizionano, per costruire insieme una società veramente umana, fondata su principi e valori solidi.

Pubblicato in Riflessioni
Venerdì, 16 Ottobre 2020 08:42

Il diavolo in Vaticano

 

 

Non è una novità, ne è la prima volta. Il diavolo, simbolo della malvagità e della corruzione, è sempre dietro l’angolo e si nasconde dentro di noi, in una lotta irriducibile contro l’angelo del bene. La sua vittoria o la sua sconfitta dipendono sempre da noi uomini e mai dal caso o dal destino. In questi tempi il diavolo spadroneggia in Vaticano, nelle sacre stanze dove vive il Vicario di Cristo, il Papa. I giornali raccontano di milioni di euro investiti, da parte di alti prelati, per l’acquisto di immobili di lusso o depositati in paradisi fiscali, dove ingrassano cardinali, vescovi e faccendieri. I soldi raccolti e destinati alla beneficenza dei poveri e degli indigenti, l’8 per mille versato dai fedeli, finiscono nelle tasche dei mediatori, di finanzieri senza scrupoli e di astute segretarie. La Santa Sede è una struttura complessa con relativi costi per gli uffici, il personale, un corpo di polizia, persino un apparato militare. È uno Stato indipendente e sovrano che ha rapporti diplomatici con tutto il mondo. È evidente che il denaro serve, ma è altrettanto evidente che, per opera degli uomini e del diavolo, i soldi si possono utilizzare in maniera impropria e illegale. Il potere temporale della Chiesa risale alla Donazione di Costantino (315 d.C.), che forse non s’era mai sognato di dare al Papa il dominio di Roma che, successivamente, si è esteso in gran parte dell’Italia, fino al 1870 (Porta Pia). “Ahi Costantin, di quanto mal fu parte/non la tua conversion ma quella dote/che da te prese il primo ricco patre/.”esclama dolorosamente Dante Alighieri nell ’Inferno,(canto xix). Un grosso macigno, il potere temporale della Chiesa, che costrinse papa Celestino v (Pietro da Morrone) al” gran rifiuto”, papa Albino Luciani a morire di crepacuore, Joseph Ratzinger alla resa e, infine, papa Francesco a una indicibile sofferenza nell’intento di porre rimedio a questa situazione scandalosa e invertire la tendenza per ricondurre la Chiesa alla pratica del Vangelo. Lunga vita a Papa Francesco, affinché con la sua infinita bontà e misericordia, ma anche con la sua grande determinatezza e coraggio, possa riuscire a scacciare il diavolo dal Vaticano!

Pubblicato in La Terza Pagina

 

IL FONDATORE DI COMUNITA’ RELIGIOSE

 

Sempre in questo periodo, tenendo presente l’animo pastorale del cardinale, ricordiamo che il nostro Corradini , su proposta di padre Pietro Francesco Valle, da suor Angela Rossi e da Bartolomeo Rota, e facendosi co-promotore della causa, sollecitò il breve papale “Ad Apostolicam Dignitatis” ( che papa Clemente XI emise in data 11.06.1717) con il quale si approvava la fondazione e l’erezione del Conservatorio della Sacra Famiglia di Sezze.  Tale istituzione traeva la sua origine da una congregazione femminile che colà alimentava la vocazione di religiose votate al sostegno materiale e spirituale d’umili fanciulle.  Il collegio, diretto da due monache, era, in effetti, una casa di formazione per le giovani che si avviavano al matrimonio o alla vocazione religiosa.  Con questa fondazione, e con l’apertura delle “Scuole delle fanciulle d’ogni età e condizione” (Sezze, 17.08.1717) il Corradini portò a compimento un caritatevole ma lungimirante progetto a lungo meditato dalla propria madrina Caterina Savelli.  La pia istituzione era da considerarsi un’emanazione di due congregazioni religiose : da una parte essa ereditò le norme del “SS. Bambino Gesù di Roma” e dall’altra mise a profitto l’ordinamento disciplinare delle cosiddette “Scuole Pie della città di Viterbo”. Paterna è l'attenzione del Corradini che segue la comunità nei suoi bisogni: cenacolo che presto si moltiplica in molti luoghi. Nel 1741, allorché Benedetto XIV invia alle suore e alle ragazze della congregazione una “lettera apostolica”, i collegi corradiniani si sono diffusi grandemente in varie parti d’Italia, soprattutto in Sicilia. In Palermo, nel 1721, fu eretto il primo dei collegi siciliani (detto dell’Olivella): a questo si affiancarono quelli di Torretta, Palma di Montechiaro, Biancavilla, Racalmuto, Marineo, Centuripe, Santo Stefano di Camastra, Caltanissetta, Sortino, Castelvetrano…, tutti benedetti dai vescovi dell’isola e tutti in rapporto con la casa di Sezze, Naturalmente i collegi risentono in modo sostanziale del “carisma” del proprio fondatore. La Sicilia deve molto a questo cardinale, che a Palermo e nelle diverse province avvia un'opera la quale penetra la struttura sociale, diffondendosi in città e campagne, coinvolgendo donne e uomini nella donazione di sé agli altri, divenendo punto di riferimento, da oltre due secoli e mezzo, delle famiglie protese alla ricerca del sacro e del senso dell'esistere.  La Congregazione della Sacra Famiglia varca i confini dell’Italia e d’Europa approdando perfino in alcuni paesi dell’Africa, sempre convogliando energie locali per la creazione di scuole, oratori e centri culturali: citiamo a proposito le missioni delle collegine di Enfield-Londra, della polacca Kielce, e di quelle sparse in Africa a Migoli,Iringa e Morogoro ( tutte e tre in Tanzania ).     Nel 1718 il nostro prelato è designato “Prefetto della Sacra Congregazione” del Concilio di Trento, per l'applicazione delle norme dogmatico-disciplinari decretate in quella sessione dei vescovi. Corradini, in questo pregevole incarico è affiancato, nel lavoro di segreteria, dal promettente giovane Prospero Lambertini, futuro papa Benedetto XlV.  L’attività del nostro cardinale si svolge per lunghi anni sempre alle dipendenze della Curia Vaticana, in diretto contatto con i pontefici romani, sotto i quali egli riveste incarichi sempre più complessi.  A questo periodo (1718-1734) risalgono i procedimenti processuali verso gli abusi nella diocesi di Benevento e la soluzione delle pendenze giuridiche con i  “Savoia” e i Sovrani di Spagna. Nel 1734 è nominato Vescovo di Frascati, dove dirime subito le controversie fra il capitolo della cattedrale e l'amministrazione cittadina con spirito evangelico, dando inizio ad una forte azione pastorale.Visita monasteri, parrocchie, chiese, oratori invitando il clero e i laici allo studio del concilio e alla sua attuazione, consapevole che il rinnovamento “degli animi” passa attraverso l'ascolto della parola.  Resasi vacante la sede apostolica per la morte di Benedetto XIII, il Corradini entra nel conclave del 1730: molti porporati, nel corso delle votazioni per l’elezione del nuovo papa, si esprimono favorevolmente per eleggerlo “Pontifex Maximus”.  Le eminenze Bentivoglio e Cianfuegos si oppongono, rendendo manifesto il veto di Carlo VI d'Austria.  La serenità con cui il cardinale accetta l’esclusione dal papato rivela lo spessore della sua nobile vita cristiana.  Dieci anni dopo, scomparso Clemente XII, Pietro Marcellino Corradini è ancora in conclave ed è indicato nuovamente, dai cardinali “zelanti”, quale “Pastore” della chiesa universale.  Adesso appare sicura la sua elevazione alla cattedra di Pietro poiché non sussiste più il veto dell'imperatore. Il quasi ottuagenario cardinale però, preoccupato solo del bene della chiesa, ringrazia i padri che lo designano a tanto ruolo e subito rifiuta, sostenendo la necessità di un pontefice fresco d’energie.  Al suo posto è chiamato il Lambertini che assume il nome di Benedetto XIV, il quale affida all'antico maestro l’incarico di avviare il Concordato con il Regno di Napoli, che sarà portato a compimento nel breve giro di qualche mese.  Questo è l’ultimo atto del Corradini giureconsulto, la cui vera vocazione è il ministero della carità, che egli esercita negli stessi decenni dell'impegno diplomatico. 

 

Pubblicato in Storia e Tradizioni
Domenica, 11 Ottobre 2020 05:11

Il fascino indiscreto dell'autoritarismo

 

 

La democrazia è relativistica, non assolutistica. Essa, come istituzione di insieme e come potere che da essa promana, non ha fedi o valori assoluti da difendere, ad eccezione di quelli sui quali essa stessa si basa: nei confronti dei principi democratici, la pratica democratica non può essere relativistica. La democrazia deve cioè credere in se stessa e non lasciar correre sulle questioni di principio, quelle che riguardano il rispetto dell’eguale dignità di tutti gli esseri umani e dei diritti che ne conseguono e il rispetto dell’eguale partecipazione alla vita politica e delle procedure relative” (Gustavo Zagrebelsky)

I principi di libertà, uguaglianza e solidarietà costituiscono il substrato sostanziale di ogni autentico ordinamento democratico e dovrebbero ispirare l’agire politico, essere sottratti all’opportunismo e alle convenienze, alle logiche di schieramento e alla partigianeria, costituire un elemento unificante e di condivisione, pur nel rispetto del pluralismo di idee e posizioni, da difendere senza retro pensieri e distinguo e da attuare progressivamente da quanti sono investiti di compiti e responsabilità amministrative e di governo della cosa pubblica.

Il rifarsi ai principi democratici, se non è un mero esercizio retorico, una ipocrita perorazione astratta e un formalismo senz’anima, definisce e caratterizza l’identità di quanti ad essi si richiamano e richiede di essere declinato concretamente nelle scelte individuali e nell’agire collettivo. Contrariamente è solo un insieme di parole vuote e suoni inutili, destinati a dissolversi senza lasciare traccia e ricordo di sé.

I principi che definiscono e modellano la nostra democrazia sono racchiusi nella Costituzione della Repubblica, la quale non è semplicemente un documento scritto e proclamato solennemente che disciplina l’organizzazione e il funzionamento degli organi supremi dello Stato e riconosce una serie di diritti e di doveri ai cittadini, ma un corpo vivo, un programma da tradurre in scelte capaci di generare cambiamenti, il progresso sociale, culturale ed economico, non solo all’interno della nostra comunità ma anche nell’ambito delle relazioni internazionali. È questo un punto ineludibile, un passaggio fondamentale, decisivo e qualificante l’agire dei partiti e movimenti che si presentano ai cittadini, affermando appunto di riconoscersi nella Costituzione e, perlomeno a parole, di perseguire il bene comune.

Pertanto al di là delle simpatie per l’uno o l’altro raggruppamento politico, delle legittime diversità di opinioni e sensibilità culturali, il credere nei fondamentali principi che ispirano la nostra carta costituzionale mi porta a stigmatizzare fermamente la scelta compiuta da due forze politiche del nostro paese nel Parlamento Europeo. Qualche settimana fa gli eurodeputati hanno approvato a larga maggioranza una risoluzione di condanna della Russia per l’avvelenamento di Alezei Navalny, oppositore del presidente Vladimir Putin, non nuovo a ricorrere alla persecuzione e alla eliminazione fisica degli avversari politici, con cui si chiedeva anche l’applicazione di sanzioni, in cui spicca il voto contrario della Lega, opposizione palesata peraltro anche con la decisione di non approvare nemmeno la risoluzione di condanna del presidente bielorusso, assai vicino a Mosca, accusato di ricorrere alle intimidazioni e all’uso della forza nei confronti dei propri concittadini che manifestano pacificamente da settimane per la libertà e la democrazia e contro i brogli perpetrati nelle recenti elezioni presidenziali, nella quale si affermava di non riconoscere il risultato dello scrutinio e Alexander Lukashenko come presidente rieletto, chiedendo di conseguenza nuove elezioni, la fine del blocco di internet e dei social e schierandosi dalla parte dei cittadini bielorussi. A pensarla come i deputati della Lega sono stati i francesi di Rassemblement National, i tedeschi di Alterantive fur Deutschland, gli austriaci dell’FPO, insomma l’estrema destra e gli euroscettici europei. Il Movimento 5 Stelle ha votato a favore della risoluzione contro il dittatore bielorusso e si è astenuto invece su quella di condanna di Mosca. Peraltro i grillini non sono nuovi a certe simpatie. Basta ricordare la mancata condanna del regime di Maduro in Venezuela, responsabile di gravi violazioni delle libertà e della democrazia, oltre ad aver ridotto il popolo alla fame e averlo privato persino dei medicinali. 

Va precisato che le deliberazioni del Parlamento europeo non producono effetti immediati e per essere operanti necessitano del via libera dei governi dell’Unione, nel caso specifico del Consiglio Europeo dei Ministri degli Esteri, e che i rappresentati della Lega hanno motivato la loro scelta affermando che le eventuali sanzioni avrebbero danneggiato le aziende italiane. Si tratta di motivazioni che, seppur in parte fondate, non cancellano la gravità della scelta compiuta da questi due movimenti politici, i cui esponenti ricoprono importanti responsabilità di governo o aspirano a dirigere l’Italia. È giusto tener conto degli interessi economici, ma è inaccettabile voltarsi dall’altra parte e fingere di non vedere le sistematiche violazioni dei diritti e delle libertà delle persone perpetrate da questi regimi antidemocratici, i cui leader, autoritari e senza scrupoli, ricorrono ad ogni genere di abuso, alla carcerazione illegale, alla repressione violenta del dissenso e all’assassinio politico.

Sarebbe un errore gravissimo sottovalutare quanto accaduto nel Parlamento europeo, minimizzare la portata delle scelte della Lega e del Movimento 5 Stelle, relegarle nell’ambito dei normali tatticismi politici che caratterizzano i rapporti tra i gruppi parlamentari europei o addirittura considerarle prezzi inevitabili da pagare nella gestione delle complesse relazioni internazionali. Quando non si condanna il ricorso alla violenza nella politica, si entra in una visione autoritaria della società. Il fascismo nasce quando si accetta il ricorso alla violenza fisica contro il diverso e l’avversario politico, quando si arrestano, perseguitano e uccidono gli oppositori per eliminare il dissenso. È la storia dell’inizio di tutte le dittature e non è affatto una esagerazione.

È impossibile dirsi a parole democratici ed essere amici dei dittatori, o quantomeno più o meno velatamente simpatizzare per loro.

Pubblicato in Riflessioni

L’ARCHEOLOGO

 

Nel biennio 1704-1705, quale esperto archeologo, pubblica i due volumi (in tre distinti libri) del celebre “Latium Vetus Profanum et Sacrum”, opera monumentale caratterizzata da analisi scientifica capace di sezionare le “viscere” e tutto il “corpus” sostanzioso della storia del Lazio. Per questa rilevante caratteristica tale dotta produzione diviene un testo fondamentale per tutti gli eruditi e gli archeologi, sia di allora sia di questi nostri tempi.  L’opera venne subito ricolma d’elogi dagli esperti del tempo quale fonte preziosa e chiara per gli archeologi affascinati dalle antichità del Lazio, sia sacro sia profano. L’autore, nel primo volume, illustra le vicende dei primitivi coloni del Lazio mentre nel secondo narra le storie locali degli abitanti di Sezze e del Circeo. I due volumi furono arricchiti da artistiche e pregevoli riproduzioni riguardanti monumenti di Sezze e opere pubbliche d’altre città laziali.  Tutta la variegata raccolta costituì subito una fonte preziosa per la ricostruzione analitica delle famose ventitré città pontine scomparse (quelle citate da Plinio), per la ricostruzione topografica (in territorio setino) delle ville di Marco Antonio,di Augusto, di Mecenate …d’Attilio, di Vitellio, di Cornelia… ed infine per una probabile ricostruzione genealogica del poeta Valerio Flacco e delle altre estinte famiglie locali.  Il Corradini analizza con affetto anche alcuni resti archeologici di siti religiosi pagani e cristiani: per primo descrive i ruderi del monastero eretto nella palude di Sezze (nell’anno mille) da San Lidano abbate, futuro patrono della città; è quindi analizzato il tempio della dea fortuna di Praeneste e quello di Giove (“Jovis Anxuris”) di Terracina.  Non mancano ulteriori indagini su un tempio di Saturno in Sezze e di quello dorico dedicato ad Ercole nella città di Cori. l’archeologo Corradini, per sopraggiunti onerosi impegni presso la “Santa Sede”, dovette interrompere l’opera intrapresa ed affidarne il completamento al gesuita padre Rocco Volpi che chiuse il lavoro aggiungendogli altri ricchi volumi d’arte e di storia laziale. Questa pregiatissima ricerca sul Lazio archeologico è segnalata ancor oggi dall'enciclopedia Treccani che così la contraddistingue: “l’opera è tutta di prima mano, frutto di sopralluoghi accurati e di un diretto esame dei documenti, grazie al quale il Corradini entrò nel numero degli archeologi ed eruditi settecenteschi”.  Tutti i dati raccolti saranno un valido strumento di ricerca per molti studiosi italiani e stranieri, tra i quali citiamo Goethe e Chateaubriand, Gregorovius e Andersen, tutti affascinati dalla conoscenza delle pietre e della razza “latina”.

 

 IL “FEDELE” AVVOCATO DI SANTA ROMANA CHIESA 

 

Il nostro Corradini, diviso tra la passione umanisticoarcheologica e quella di natura giuridica, sempre più attratto in ciò da complesse problematiche dello stato pontificio, lascia lo stesso “le creature della sua terra latina” e si dedica fortemente alla soluzione di questioni di diritto, per la cui finalità compone ulteriori pregevoli lavori, tra i quali ricordiamo, a mero titolo esemplificativo, il   “De primariis precibus imperalibus”  (Pubblicato nel 1706 con lo pseudonimo di Corrado Oligenio) e la “Relatio iurium sedis apostolicae in Civitatem Comaclensem” (pubblicata anonima in Roma nel 1711).  Nel primo lavoro l’animo del giurista, che sente di dover perseguire innanzitutto il bene comune della sua chiesa, si erge a difesa del papato ( negli anni 1705-1711) contro varie ingerenze politiche e militari di Giuseppe I d'Austria, che con la forza del suo esercito persegue continue rivalse e arbitrii contro lo stato pontificio: l’imperatore,che pretendeva di imporre quale vescovo di Hildesheim ( senza il placet di Clemente XI ) il suo favorito Ugone Francesco Fustenberg, si ritrova sconfitto da questa giuridica controffensiva corradiniana.  La difesa del Corradini farà sì che Clemente XI abolirà il privilegio delle cosiddette “primariae preces”, che per anni aveva causato i soprusi ecclesiatico-religiosi degli imperatori e dei principi tedeschi. Il secondo lavoro giuridico fu composto dal Corradini a difesa dell’autorità pontificia sulle terre di Comacchio, indebitamente occupata da truppe imperiali nel corso della guerra di successione spagnola (ai tempi di Giuseppe I, Carlo II e Carlo VI…) in vista di un sostanzioso sfruttamento di appetitosi terreni di coltivazione ittica.     Ritornando alla sua “carriera” religiosa ricordiamo che il Corradini, dopo essere stato ordinato sacerdote, in seguito è eletto arcivescovo titolare d’Atene. Più tardi, nel concistoro tenutosi il 12 maggio 1712, egli è nominato “cardinale di Santa Roma Chiesa”, sotto il titolo di San Giovanni a Porta Latina, alla cui carica è ritenuto degno soprattutto per il suo essere persona pia ed integerrima.  Dei 17 nuovi cardinali, infatti, un terzo era stato proposto al papa dai sovrani mentre gli altri erano chiamati a tale onore solo per il loro disinteressato servizio alla Chiesa e allo Stato del Vaticano. Nello stesso concistoro, fra l’altro, fu proclamato cardinale il famoso siciliano Giuseppe Maria Tomasi di Lampedusa, legato da stima ed amicizia con il nostro Corradini che gli resterà sempre legato. Lo studioso Gioacchino De Sanctis, nel suo poderoso studio, ricorda che fra i diciotto nuovi cardinali due di loro, Corradini e Tomasi, manifestarono l’intenzione di rinunciare alla porpora cardinalizia ma furono obbligati ad accettarla “per obbedienza” verso il papato. L’anno successivo il neo porporato, in qualità di “Ponente della causa“ sostiene l’iter per la beatificazione di fra’ Benedetto da Palermo, un moro di origine etiope, nato a San Fratello sui monti Nebrodi, la cui figura aveva già suscitato un vivo interesse già presso i suoi contemporanei.  In quest’anno sembra che il nostro neo cardinale abbia collaborato alla redazione della “Unigenitus Dei Filius”, bolla papale dell’8 settembre 1713 nella quale Clemente XI espresse la ferma condanna di 101 tesi ereticali ricavate dalle “Rèflexions morales sur les Evangiles” di Pasquier Quesnel (1634-1719).

Pubblicato in Storia e Tradizioni
Mercoledì, 25 Marzo 2020 07:04

La messa è finita (per adesso)

 

Riceviamo e pubblichiamo con piacere uno scritto del caro Rev.do Anselmo Mazzer, parroco per ben 27 anni della Cattedrale Santa Maria di Sezze, oggi Parroco presso Santa Maria Goretti di Latina, assistente ecclesiastico presso Unione Cristiana Imprenditori e Dirigenti nonché Assessore presso Tribunale Ecclesiastico diocesano.

 

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Non disapprovo i miei confratelli che, in questo tempo, trasmettono in streaming  Messe, rosari, ecc. (ce ne sono dappertutto e a tutte le ore), in base al detto: ”Piuttosto che niente, è meglio piuttosto”. Tuttavia queste trasmissioni non mi affascinano.

Una prima motivazione è data dal fatto che può consolidarsi una vecchia mentalità, dura a morire, secondo la quale si “assiste” alla Messa: un rito che un prete da solo “se la suona e se la canta”; non importa se manca del tutto una assemblea che dà “corpo” alla presenza dinamica del Signore e se manca completamente l’obbedienza all’ordine di Gesù: “Prendete e mangiate; prendete e bevete”.

Ma il mio scarso entusiasmo verso le suddette trasmissioni è motivato dal fatto che “è dovere della Chiesa scrutare i segni dei tempi e di interpretarli alla luce del vangelo” (Gaudium  et Spes 4).

Allora, il Signore che cosa ci può voler dire attraverso quello che sta accadendo, senza ovattarne la forte e forse dura significatività?

Credo che ci sia bisogno di credenti che non aspettano semplicemente il ritorno alla normalità, ma persone che sanno cogliere questa occasione come “segno di questo tempo”, come “Parola di Dio”, prezioso momento di purificazione e di maturazione. 

È inutile negarlo: siamo davanti ad un vuoto, non solo liturgico, che fa male.

Chi con serietà era abituato a partecipare ai Divini Misteri, sa che, mancando questa partecipazione, non manca un rito, ma la reciprocità con una Persona che si chiama Gesù Cristo.

Senza tentare di edulcorare la pillola, lasciamo che questo vuoto, provvidenzialmente, ci faccia male e stimoli la crescita di cristiani, in ascolto del Signore, assetati di senso e di pienezza. Altrimenti che senso avrebbe l’offerta di un bel bicchiere di acqua fresca ad uno che non ha sete.

Afferma il nostro Vescovo Mariano: “Anche questo è tempo di Dio, in tempo che Dio ci dà per ascoltarlo e seguirlo. Sarà un tempo privo, ma non per questo necessariamente vuoto: un tempo privo dell’Eucarestia deve diventare ancora di più un tempo pieno di Dio, a cominciare dal desiderio che, in questa assenza di Eucarestia, si fa ancora più forte”.

Infatti il vuoto brama una pienezza e soffre se non la trova. Come nel Cantico dei Cantici è indicibile il dolore della donna amata che perde di vista il suo grande amore e questo la spinge a cercarlo, fuori di sé,  da tutte le parti e in tutti i modi. Come i credenti che ricevono nelle mani la Comunione. Che cos’è una mano concava se non una mano che desidera essere riempita dalla Pienezza?

Diciamo la verità: per quanti credenti e praticanti l’Eucarestia domenicale, il sacramento della Confessione, la preghiera quotidiana sono oggi pratiche scontate e forse sopportate, anche perché le abbiamo sempre “sottomano”.

Per quanti l’Eucarestia, pur partecipata ogni domenica, non è l’accoglienza della proposta di Gesù: “Permetti alla mia mentalità di diventare la tua mentalità e permetti alla mia vita di vivere nella tua vita?”. Per quanti, che pure frequentano, celebrare il sacramento della Riconciliazione (o Confessione) è come andare sulla sedia elettrica!

Siamo passati dalla “saturazione eucaristica” al “digiuno eucaristico”.

Lasciamo che questo vuoto faccia male, perché esso interpella, per fortuna, credenti e  non credenti.

Ieri sera appena mi ha visto un tale che non mette in chiesa il piede neanche a Pasqua e Natale e che ha impedito al figlio di continuare nel post-cresima, mi ha detto testualmente: “Finalmente abbiamo messo i piedi per terra!”. Ho trattenuto le lacrime a stento.

Quante persone, specialmente adolescenti e giovani, che hanno impostato la loro vita sullo stile del “trullalero trullalà”, sono costretti oggi a prendere atto che dietro la porta di casa ci può essere concretamente … la morte; che c’è un maledetto virus, invisibile ma letale come il maligno, che ci vuol distruggere.

Ne abbiamo parlato il mercoledi delle Ceneri: davanti all’avanzare dell’apostasia (abbandono in massa della fede) credenti traballanti possono lasciarsi tentare dalla menzogna permanente di vivere senza Dio, perché lui, l’uomo di oggi, nella sua ridicola superbia, si crede dio. Anzi, sente dire che “senza Dio, è meglio”. È l’umano delirio di onnipotenza.

Forse in questi giorni quest’uomo deve rivedere la pseudo-certezza di credersi il padrone dell’universo, che punta tutto sulla civiltà tecnocratica senza un’anima. Chi pensava di avere, con la tecnologia, tutto sotto controllo è costretto  a ricredersi.

Solo se questo vuoto ci fa male, ci potrà fare del bene. Ci potrà far aprire gli occhi  e far fare la scelta, sempre perfettibile, che dà consistenza alla nostra esistenza attuale e futura: o il Tutto o il niente.

Siamo certi: nel cuore dell’uomo è presente un’intensa sete di calore e di luce. Gesù ci prende per mano, e, nonostante le tenebre della storia, si fa desiderare in noi perché, creati a sua immagine, diventiamo sua somiglianza per essere riflesso umile e luminoso della sua inesauribile speranza.

 

Don Anselmo

Pubblicato in In Evidenza

 

 

 

 

Ai tempi del Coronavirus anche la Chiesa, giustamente, non vuole perdere quella necessaria comunione con i fedeli. Le campane della Cattedrale in questi giorni molto particolari non hanno smesso di suonare, ed è stato per tutti un segno di continuità e di vicinanza. Adesso il Parroco della Cattedrale Santa Maria di Sezze, Padre Damiano si è organizzato per promuovere ogni giorno alle ore 18 un momento di preghiera con dirette facebook (profilo Cattedrale di Sezze) e con l’ausilio di altoparlanti. Già questa mattina Padre Damiano e Padre Tommaso hanno pregato in diretta e dato la benedizione nella III domenica di Quaresima su facebook, iniziativa molto gradita dai fedeli di Sezze. Da questa sera, quindi, flash-mob dai balconi del quartiere e diretta su internet, tutti insieme a pregare il Rosario. Ecco le parole del nostro Parroco Padre Damiano: “In questi momenti in cui ci sembra di essere soli, ricordiamoci delle parole del Salmo “Non si addormenterà, non prenderà sonno, il custode d'Israele” (Sal 121,4): chiediamo a Dio per mezzo della sua Immacolata Madre che assista tutti coloro che, malati, medici e infermieri, vittime con i loro familiari, sono impegnati in questa lotta e che salvi la nostra città, il nostro Paese e il mondo intero da questa epidemia. Per questo, da questa sera ci riuniremo tutti insieme per pregare il Rosario, ma non potendoci riunire fisicamente lo faremo con un flash-mob: sui balconi alle 18.00 eleveremo le nostre preghiere al Cielo”.

 

La Cattedrale di Santa Maria di Sezze

 

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Domenica, 15 Marzo 2020 06:54

Come ci cambierà il virus

 

 

 

 

 

Viviamo l’esperienza del tempo rallentato, dilatato, che ha smesso di inseguirci in modo forsennato, in una corsa a perdifiato verso un altrove e un ulteriore inafferrabili e in fondo imprecisabili. Siamo immersi in una dimensione del vivere che ci lascia lo spazio e l’opportunità di assaporare lo scorrere di ogni singolo istante, di farlo nostro profondamente e autenticamente, di sperimentarne irripetibilità ed essenzialità, al contempo accorgendoci di quanti istanti unici abbiamo perso per distrazione, per superficialità o perché presi da mille affanni.    

Viviamo l’esperienza degli spazi angusti, delle mura amiche delle nostre case che avvertiamo soffocanti, opprimenti. Confinati in casa, ci aggiriamo da una stanza all’altra all’inseguimento di un soffio di quella desiderata libertà che questa prigionia forzata sembra sottrarci goccia a goccia, in un distillato lento, amaro e duro da trangugiare. Tuttavia se ci fermiamo un istante percepiamo che proprio quelle mura, invalicabili e ostili, raccolgono le nostre storie, raccontano l’ordinarietà delle nostre vite, i piccoli gesti carichi di amore, le presenze di familiari e amici date per scontate al punto da non coglierne più la potenza arricchente, l’asprezza di conflitti, piccoli e grandi, a motivo di inquietudini e nervosismi che il quotidiano ci riserva, la dolcezza di parole scambiate, di carezze date e ricevute a cui spesso non attribuiamo il giusto peso e la necessaria importanza. Abbiamo l’opportunità di ricostruire e recuperare il significato della normalità degli affetti che ci rende pienamente noi stessi, senza la quale saremmo perduti in un indistinto senza emozioni e perciò senza futuro.

Viviamo l’esperienza del guardare lo scorrere degli eventi umani da una prospettiva inedita, distante dalle abitudini consolidate. Troppe volte dimentichiamo che ogni avvenimento, personale o collettivo, è tale nella sua oggettività esterna ed esteriore, ma si riverbera nella nostra interiorità, produce effetti nel nostro io, inducendoci a pronunciare parole e compiere scelte. Aver rallentato il flusso del vivere, ci offre l’opportunità di prendere coscienza di quanto sia importante, anzi vitale, affacciarci nel mondo dalla finestra della nostra interiorità, da un punto d’osservazione e valutazione realmente nostro, liberandoci da suggestioni esterne accattivanti, da condizionamenti spesso subdoli e nascosti, da punti di vista per partito preso, indotti da manipolatori esperti e senza scrupoli che tentano in ogni modo di orientare opinioni e desideri, illudendoci che siano nostri. Fare a meno di riflettere e ragionare e accodarci al flusso delle opinioni prevalenti, è spesso una soluzione comoda ma di certo non è un buon affare, perché è cessione inaccettabile della nostra libertà.          

Viviamo l’esperienza del viaggiare pur restando fermi, dello scoprire luoghi e culture sorprendenti, solo in apparenza estranee e lontane perché tutte innervate di quella umanità che è nostra e di tutti parimenti, sia pur declinata secondo linguaggi e in contesti relazionali differenti ma in fondo uguali. La passione ardente negli occhi degli innamorati, i moti di rabbia e ribellione per una libertà o un diritto negato, l’ostilità e il rancore per un torto subito possono essere espressi con suoni e timbri diversi, nelle mille lingue di Babele, ma tutte raccontano la nostra unica essenza.     

Viviamo l’esperienza della fragilità, della debolezza, della malattia che possiede le sembianze di un virus sconosciuto, che ci ha aggredito e ha sconvolto le nostre vite, rendendo necessario l’isolamento in casa, per tanti il ricovero in una asettica stanza di rianimazione e facendo sperimentare la più terribile delle esperienze umane, la morte, a quanti non ce la fanno, in particolare anziani, senza il conforto di una presenza, di uno sguardo, di una voce familiare che possa renderla più sopportabile. Trovo bellissime le parole di Eugenio Borgna, il quale nel suo saggio “La fragilità che è in noi”, ci ricorda che così come la sofferenza passa ma non passa mai l’avere sofferto, così la fragilità “è un’esperienza umana che, quando nasce, non mai si spegne in vita e che imprime alle cose che vengono fatte, alle parole che vengono dette, il sigillo della delicatezza e dell’accoglienza, della comprensione e dell’ascolto, dell’intuizione dell’indicibile che si nasconde nel dicibile”.

Viviamo l’esperienza del rifiuto, dei porti chiusi, del vederci respinti e indesiderati, del sentirci dire “non ti vogliamo”, di essere considerati moderni untori di un morbo dispensatore di sofferenze e morte. Tutto ciò inciderà la nostra carne viva e potrà essere occasione per ripensare profondamente quello che fin qui siamo stati, i tanti atteggiamenti stupidi e abominevoli di cui ci siamo resi interpreti. La speranza è che le lacrime versate in questi giorni possano essere il farmaco potente che sconfigge un’altra malattia che ha infestato menti e cuori in questi ultimi anni, la cultura dello scarto, della cattiveria, del respingimento degli ultimi del mondo che bussano alle nostre porte in cerca di futuro e di mettere in circolo nelle vene della nostra società gli anticorpi della solidarietà, dell’accoglienza e dell’amore.

Viviamo l’esperienza del sentirci un “noi” e non più esclusivamente un “io”, chiusi nell’autoreferenzialità, indifferenti a quanto ci accade intorno, impegnati a custodire il nostro spazio egoistico. Ci siamo riscoperti comunità e da questa emergenza possiamo ricavare una lezione straordinaria di fratellanza e condivisione: la tua vita è anche la mia, la mia salvezza non dipende solo da me ma anche dagli altri e sono chiamato a collaborare per costruire il bene di tutti, il bene comune, proteggendo i più deboli, i più esposti, gli anziani, i malati, i bambini…. L’isolamento poi è solo apparente perché gli altri sono presenti accanto a noi con la loro lontananza e la loro assenza, è atto sociale di profonda solidarietà ed esercizio massimo della libertà che è realmente tale se non dimentichiamo le conseguenze delle nostre azioni nella vita degli altri, della nostra città e dell’intero Paese. Soprattutto abbiamo scoperto che i veri eroi, gli idoli da ammirare e imitare sono quanti nel silenzio e nel nascondimento, quotidianamente spendono le loro esistenze per gli altri, i medici, gli infermieri in questo frangente particolare e in generale quanti operano in modo disinteressato e senza clamori e fanfare aiutando quanti hanno bisogno.

Pubblicato in Riflessioni
Venerdì, 13 Marzo 2020 17:48

Morire...senza neanche il funerale

 

 

 

 

Il senso di solitudine e di abbandono, in cui stiamo precipitando durante questi interminabili giorni di coronavirus, si avverte ovunque pesantemente. L'avanzata progressiva dell'epidemia, che semina paura e morte, è diventata un incubo costante, sia di giorno che di notte. Ci siamo, giustamente e doverosamente, rintanati in casa, in faccia alla TV, aspettando con ansia e sperando che la peste faccia un passo indietro. Ascoltiamo ogni sera, alle ore 18, dalla Protezione Civile, la conta dei contagiati, dei positivi e dei guariti e, anche, purtroppo, dei tanti morti a causa del virus. Dentro di noi nutriamo la speranza che non tocchi a noi, che il contagio ci risparmi! Il nemico è nascosto! L'altro giorno, andando a fare la spesa, mi è capitato di leggere alcune epigrafi funebri prive dell'invito a partecipare ai funerale della persona defunta. Mi ha preso immediatamente un brivido, ma poi ho ripensato al sacrosanto divieto, da parte del Governo, di assembramento anche in chiesa, anche per l'estremo saluto ai proprio caro defunto. Vietata in chiesa e al cimitero la commemorazione funebre! E' proprio vero che si muore da soli! Il coronavirus ha la forza diabolica di farci sentire ai bordi di un precipizio. Un  timore che vale per tutti ma soprattutto per quelli della mia età, per gli ultrasettantenni. L'infezione colpisce mortalmente soprattutto le persone anziane. Gli altri, più giovani, statisticamente soccombono di meno e perciò si sentono più rinfrancati e fiduciosi sperando che la tragedia li risparmi. Io non mi dispiaccio di ciò, anzi darei la mia vita per salvare quella di un giovane. Ma anche loro devono obbedire e rispettare rigorosamente le norme in vigore. Quanto detto mi spinge a una ultima riflessione. Morire a una certa età, oggi, non fa più neanche notizia, soprattutto quando si è avanti negli anni. La narrazione di una esistenza, la trasmissione di alcune virtù e valori, il racconto di esperienze umane, la testimonianza di una vita: niente ha più valore, niente ha più senso. Il coronavirus sta mettendo a nudo la fragilità e l'inconsistenza della società in cui viviamo, del nostro modo di vivere e di pensare, del peso che non si riesce più a conferire ai sentimenti, agli affetti. Si muore da soli così come si vive da soli. Neanche più il funerale che dovrebbe vuole suggellare "l'eredità di affetti" tra il vivo e il defunto. Siamo diventati solo dei numeri, dei dati biologici e anagrafici. La peste del coronavirus deve aiutarci a rinsavire un pò. Meglio sarebbe che insieme si riscoprisse l'amicizia e la solidarietà, il rispetto delle regole e delle persone, a prescindere dalla loro età e dal loro patrimonio. Di fronte alla pandemia del virus nessuno può sentirsi immune e garantito; nessuno deve sentirsi tracotante e strafottente al punto di pensare di salvarsi da solo. Il coronavirus si combatte e si vince insieme, con maggiore spirito di solidarietà e di  umanità.

 

Pubblicato in La Terza Pagina
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