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Annalisa Savelli

Annalisa Savelli

 

 

Chi avrebbe mai immaginato che un frutto originario della lontana Cina, reso celebre dalla Nuova Zelanda, sarebbe diventato uno dei simboli agricoli del Lazio? Eppure, a Sezze, nel cuore dell’Agro Pontino, il kiwi ha trovato la sua seconda casa.
Negli anni Settanta, quando alcuni agricoltori setini — animati da coraggio, visione e amore per la propria terra — decisero di sperimentare questa nuova coltura, nessuno poteva prevedere l’impatto che avrebbe avuto. Con il supporto di tecnici agronomi e cooperative locali, nacquero i primi impianti: da quella scommessa è germogliata una delle realtà agricole più importanti e riconosciute d’Italia.

Oggi il kiwi non è solo un prodotto, ma una storia di passione, lavoro e territorio.

Un’eccellenza riconosciuta: il Kiwi Latina IGP

La produzione di Sezze rientra oggi nel marchio Kiwi Latina IGP, una denominazione europea che garantisce l’origine, la qualità e la tracciabilità del prodotto.
Il Kiwi Latina è noto per la sua polpa dolce e profumata, per il suo alto contenuto di vitamina C e per la sua consistenza unica. Ma dietro ogni frutto si nasconde il lavoro quotidiano di centinaia di agricoltori che, con dedizione e competenza, seguono ogni fase del processo produttivo: dalla potatura alla fioritura, dall’irrigazione alla raccolta.

Il periodo della raccolta: un anno di cure e speranze

È proprio in queste settimane che a Sezze si vive uno dei momenti più attesi dell’anno: la raccolta dei kiwi.
Un periodo che rappresenta il coronamento di un lungo percorso fatto di sacrifici, di notti passate a proteggere le colture dal gelo, di giornate di sole e pioggia vissute nei campi. Ogni frutto raccolto è il risultato di dodici mesi di cure, attenzioni e amore per la terra.

Le aziende agricole: cuore pulsante dell’economia locale

Oggi a Sezze operano decine di aziende agricole, molte delle quali a conduzione familiare. Queste imprese rappresentano un pilastro dell’economia locale, generando occupazione e sostenendo un importante indotto: dalla logistica alla trasformazione, fino alla commercializzazione e all’export.
Il kiwi setino viaggia ormai verso i mercati di tutta Europa, portando con sé il nome di Sezze e la qualità della sua terra. Ogni cassetta esportata è una piccola ambasciata del lavoro, dell’impegno e della tradizione pontina.

Innovazione e sostenibilità: il futuro si coltiva oggi

L’agricoltura setina non guarda solo al passato, ma investe nel futuro.
Molte aziende hanno adottato tecniche di irrigazione intelligente, pratiche di agricoltura biologica e sistemi di economia circolare che riducono gli sprechi e tutelano l’ambiente.
Il kiwi diventa così un simbolo di innovazione sostenibile, capace di coniugare tradizione e progresso, qualità e rispetto della natura.

Un patrimonio per la comunità

La coltivazione del kiwi non è solo una fonte di reddito: è un patrimonio culturale e sociale.
Le cooperative,  i consorzi e le nuove generazioni che scelgono di restare a lavorare in agricoltura testimoniano come questo frutto rappresenti oggi un fattore di identità, coesione e orgoglio per Sezze.

Come racconta un produttore locale:

“Il kiwi non è solo un frutto: è il nostro modo di raccontare Sezze al mondo.”

Un ringraziamento a chi rende possibile tutto questo

In questo periodo di raccolta, un ringraziamento speciale va a tutti gli agricoltori di Sezze.
A chi, con mani esperte e cuore instancabile, lavora ogni giorno tra i filari.
A chi continua a credere nella forza della terra e nella qualità di un prodotto che rappresenta un’eccellenza del territorio pontino.

Grazie a voi, il “tesoro verde” di Sezze continua a crescere, stagione dopo stagione, raccontando una storia fatta di radici profonde e sguardi rivolti al futuro.

 

Come evidenziato dal dossier Azzardomafie 2025 redatto da Libera (curato da Toni Mira e Gianpiero Cioffredi) e basato su relazioni della Direzione Investigativa Antimafia (DIA) e della Direzione Nazionale Antimafia (DNA) , i numeri sul gioco d’azzardo nel Lazio e nella provincia di Latina fanno riflettere: miliardi di euro puntati in un solo anno, e una spesa pro capite che supera i tremila euro.

Dati che raccontano non solo un’abitudine, ma una vera e propria emergenza sociale, che non risparmia neppure i centri più piccoli come Sezze, dove il gioco d’azzardo ha piantato radici profonde e silenziose.
Non parliamo solo di slot machine o sale scommesse, ma di un fenomeno diffuso e normalizzato, che oggi entra nelle case attraverso uno smartphone, una pubblicità su un social network o un gratta e vinci.

Un fenomeno che non risparmia nessuno

Secondo i dati regionali, nel Lazio si giocano ogni anno miliardi di euro.

La provincia di Latina è tra le più colpite, e Sezze, come molti comuni del territorio, non fa eccezione. Qui il gioco non è più solo un passatempo: è diventato una presenza costante, una promessa di “colpo di fortuna” che, spesso, si trasforma in una trappola. Dietro ogni giocata ci sono storie di persone comuni — pensionati che sognano un aiuto alla fine del mese, giovani attratti dalla scommessa sportiva, madri o padri che tentano la sorte per “rimediare” a difficoltà economiche. Ma quando la speranza si trasforma in dipendenza, il confine tra sogno e rovina diventa sottilissimo.

Il gioco d’azzardo è un problema sociale, non solo individuale. Dietro ai numeri ci sono famiglie spezzate, conti correnti prosciugati, relazioni logorate dal silenzio e dalla vergogna. Spesso chi gioca non chiede aiuto finché la situazione non diventa insostenibile.

Il Ser.D. dell’ASL di Latina, accoglie ogni anno nuovi casi di “Disturbo da Gioco d’Azzardo” — una patologia riconosciuta dal Servizio Sanitario Nazionale. La maggior parte delle persone arriva tardi, quando i debiti o i problemi relazionali sono già gravi. Ma chi lavora in questo campo sa che la prima barriera è proprio la solitudine: la difficoltà di dire “ho bisogno di aiuto”.

Oltre i numeri: un problema culturale e sociale

L’azzardo si alimenta di fragilità economiche, di isolamento sociale e di mancanza di alternative. Quando il lavoro è precario e le prospettive scarse, la tentazione di “provare la fortuna” cresce. Ma ogni euro speso nel gioco è un euro sottratto alla famiglia, all’istruzione, alla cultura, alle passioni vere.

Contrastare il gioco d’azzardo significa, dunque, ricostruire legami sociali: offrire spazi di incontro, attività per i giovani, opportunità di crescita. Non basta dire “non giocare”: serve dare motivi per non farlo.

La risposta possibile: comunità, ascolto, prevenzione

Per cambiare direzione, Sezze potrebbe contare su una rete di forze vive: associazioni, scuole, parrocchie. Servirebbe coordinare queste energie, fare rete, per creare percorsi di ascolto e prevenzione, campagne mirate e sportelli di sostegno per le famiglie.

L’obiettivo non è demonizzare chi gioca, ma restituire consapevolezza e libertà. Perché il gioco, quando diventa dipendenza, ruba la cosa più preziosa: la possibilità di scegliere.

A oggi, nel Comune di Sezze non risulta adottato e se lo è non è ben visibile sul sito web un regolamento specifico per la prevenzione e il contrasto delle ludopatie o del gioco d’azzardo lecito. Un’assenza che si fa sentire in un territorio dove la spesa per il gioco cresce e le fragilità sociali si intrecciano con un’offerta sempre più capillare, anche online.

Molti comuni italiani — da Imola a Lissone, fino a piccoli centri del Nord e del Centro Italia — si sono già dotati di norme locali che limitano orari e distanze delle sale da gioco rispetto a scuole, oratori, impianti sportivi e centri di aggregazione.
Misure semplici ma efficaci, che aiutano a proteggere le fasce più vulnerabili, soprattutto giovani e anziani.

Sezze potrebbe seguire la stessa strada, adottando un regolamento comunale che:

  • definisca distanze minimedai luoghi sensibili per slot e sale scommesse;
  • stabilisca fasce orarie di chiusuraper gli apparecchi da gioco;
  • introduca obblighi informativiper gli esercenti sui rischi del gioco patologico;
  • e preveda incentivi per i locali “slot-free”, che scelgono di rinunciare alle macchinette.

Un atto politico e sociale che andrebbe oltre la norma: un segnale di attenzione verso la salute, la dignità e il futuro della comunità setina.

Un impegno di tutti

Il fenomeno del gioco d’azzardo a Sezze è un termometro di un disagio più profondo, che riguarda l’intero tessuto sociale: riconoscerlo è il primo passo per cambiare.

Per questo, oggi più che mai, serve una comunità che non giri lo sguardo altrove. Servono istituzioni che ascoltino, scuole che educano, famiglie che si stringono, e luoghi dove la speranza non si giochi su un display luminoso, ma si costruisca insieme, giorno dopo giorno.

È da qui che può partire una nuova sfida di civiltà: restituire alla parola “gioco” il suo vero significato — quello di stare insieme, di sorridere, di vivere.

Il gioco d’azzardo non è solo una perdita di denaro, ma spesso una perdita di sé. Ritrovare il senso del limite, dell’incontro e della comunità è la vera vittoria che Sezze può conquistare.
Come scriveva Don Luigi Ciotti,

“La libertà non è fare quello che si vuole, ma scegliere ciò che è giusto.”

 

 

 

In Italia si è votato per le elezioni regionali in Calabria, ma quello che colpisce più dei risultati è, ancora una volta, l’astensionismo dilagante. Le urne restano sempre più vuote, i seggi deserti, e la partecipazione crolla a livelli che fino a qualche anno fa sarebbero stati impensabili.
Non è solo disinteresse: è sfiducia, stanchezza, distacco.
Mentre i partiti parlano tra loro e gli schieramenti cambiano di continuo, una parte crescente dei cittadini sceglie di NON SCEGLIERE.
Colpa della politica e del  il metodo di voto, complicato, poco trasparente e pieno di falle, contribuisce a rendere la democrazia sempre più fragile.

Come funziona (davvero) il voto nei comuni

Il metodo di voto varia a seconda della dimensione del comune:

  • Nei comuni fino a 15.000 abitanti, si vota con sistema maggioritario secco: chi prende più voti diventa sindaco, senza ballottaggi.
    L’elettore può tracciare una croce sul nome del candidato sindaco o su una lista collegata (il voto vale per entrambi), e può esprimere fino a due preferenzeper i consiglieri, purché di sesso diverso e della stessa lista.
  • Nei comuni sopra i 15.000 abitanti, si passa al maggioritario a doppio turno: se nessuno supera il 50% dei voti al primo turno, si va al ballottaggiotra i due più votati.
    Anche qui si può votare solo il sindaco o la lista, o fare il cosiddetto “voto disgiunto”: un candidato sindaco e una lista non collegata.

Sulla carta il sistema comunale dovrebbe garantire equilibrio tra rappresentanza e governabilità. In realtà, è un meccanismo opaco e facilmente manipolabile.
Le liste civiche di facciata spesso nascono solo per drenare voti o aggirare i limiti dei partiti ufficiali; il voto disgiunto consente manovre sottili tra coalizioni apparentemente rivali; e la moltitudine di micro-liste frammenta il consenso al punto da rendere tutto trattabile nei ballottaggi.
In molti comuni, la differenza tra vincere o perdere si gioca su poche centinaia di voti “pilotati” da reti di conoscenze o blocchi di preferenze.
Un sistema che, invece di rappresentare la volontà popolare, premia l’abilità tattica e il controllo del territorio.  In certi casi, basta inserire in lista un paio di nomi noti, magari figure professionali molto stimate sul territorio anche senza nessuna esperienza politica e amministrativa, per trasformare una sigla sconosciuta in una “lista civica vincente”.
Il cittadino, di fronte a schede complicate e accordi che cambiano da un turno all’altro, si sente estraneo: e smette di crederci.

Il grande assente: l’elettore

Negli ultimi anni, l’astensionismo ha raggiunto livelli record. Le cause sono molte: disillusione, mancanza di fiducia nei partiti, campagne elettorali povere di contenuti, e anche una macchina del voto che sembra antiquata e complicata.
A questo si aggiunge un sentimento diffuso di sfiducia verso la parola data: troppe promesse fatte in campagna elettorale vengono puntualmente disattese, quando non addirittura tradite da decisioni opposte una volta conquistato il potere.
E così, il cittadino finisce per convincersi che il voto non cambi davvero nulla. Quando non ci si sente rappresentati, si smette di partecipare. E senza partecipazione, la democrazia perde la sua linfa vitale.

Informazione (poca) e manipolata

A rendere il quadro ancora più preoccupante c’è anche la qualità dell’informazione.
Chi si interessa poco di politica finisce spesso per ricevere solo notizie distorte o semplificate all’estremo, filtrate dai social, dai titoli gridati o dalle narrazioni di parte.
L’informazione indipendente e approfondita sembra un lusso per pochi, mentre la maggioranza si forma un’opinione su frammenti, slogan o post virali.
Così si crea un cortocircuito: meno informazione vera, più sfiducia; più sfiducia, meno partecipazione.
E in questo silenzio, chi sa manipolare la percezione pubblica continua a vincere — anche senza convincere davvero.

In Calabria come altrove, ha vinto qualcuno. Ma a perdere, ancora una volta, è stata la partecipazione.
Finché il voto resterà un rito svuotato, tra schede incomprensibili e promesse già viste, la vera sfida non sarà conquistare seggi, ma riconquistare la fiducia di chi non entra più in cabina elettorale.

Forse il problema non è che la gente non vota: è che non si sente più parte del gioco.
E quando i cittadini smettono di giocare, la partita la vincono sempre gli stessi.

 

A Sezze i tumori colpiscono sempre più persone giovani, soprattutto donne. Non parliamo solo di numeri, ma di vite reali. E io lo so bene, perché nel 2000 ho perso mia madre a causa di un microcitoma polmonare: aveva soltanto 46 anni.

Mia madre, una delle prime vittime

Mia madre non fumava, non beveva, non aveva abitudini che potessero far pensare a un rischio. Lavorava ogni giorno su Corso della Repubblica, dove per ore e ore era costretta a respirare i gas di scarico dei tir che attraversavano il centro del paese. In un  mese quel tumore fulminante se l’è portata via. Forse fu uno dei primi casi a Sezze di una morte così precoce e improvvisa. Da allora, troppe altre famiglie hanno vissuto la stessa tragedia.

Una città avvelenata

Chi abita qui lo sa: nelle notti si alzano i fumi dei roghi di plastiche e rifiuti. Un odore acre che entra nelle case e resta sulla pelle. Si sa che quei fumi sprigionano diossine e sostanze cancerogene, ma i controlli sono assenti e i dati  inesistenti.

Non è solo l’aria a destare preoccupazione. Anche l’acqua è a rischio: le nostre fonti, l’Ufente e le Sardellane, sono circondate da rifiuti abbandonati. Discariche ovunque anche a ridosso dei corsi d’acqua. È inevitabile domandarsi quanto di quello che beviamo e mangiamo ogni giorno sia contaminato. A tutto questo si aggiunge il traffico: camion e tir che attraversano le nostre strade e le nostre campagne, liberando polveri sottili e gas tossici, ormai riconosciuti come fattori di rischio per diversi tipi di tumore.

I dati che non arrivano

In Italia i tumori sono in crescita, e anche nel Lazio i numeri confermano un aumento generale. Non solo al polmone: crescono i casi di tumore al seno, al colon, all’utero, alla tiroide. Ma a Sezze non abbiamo dati precisi. Non sappiamo se davvero la nostra comunità sia più colpita della media, perché nessuno ha mai pubblicato statistiche locali.

Eppure, le testimonianze ci sono, le famiglie colpite sono tante. Possibile che nessuno voglia vedere il filo che lega queste storie?

Cosa chiediamo

A Sezze servirebbero:

monitoraggi seri e pubblici sulla qualità dell’aria e delle acque;

controlli costanti per fermare i roghi notturni e punire chi inquina;

programmi di screening oncologico diffusi e accessibili;

un registro tumori locale, che raccolga dati precisi e trasparenti.

Roghi, discariche e tumori

I tumori ci sono dappertutto, ed è vero che in parte il loro aumento è fisiologico: viviamo più a lungo e le diagnosi sono più precise. Ma a Sezze il problema è un altro: si sottovalutano i roghi notturni e le discariche abusive, fonti di sostanze tossiche che respiriamo e ingeriamo ogni giorno. Non potremo mai azzerare il rischio di ammalarci, ma forse potremmo ridurlo. Servirebbe però la volontà di guardare in faccia il problema e intervenire davvero.

Una questione di giustizia

La morte di mia madre non è stata un caso isolato. È parte di una catena di lutti che continuano a colpire famiglie intere, persone giovani. Ogni nome, ogni volto, ogni età troppo giovane ci ricorda che non si tratta di statistiche astratte ma di vite reali.

Perché vivere a Sezze non può voler dire respirare veleni e attendere che il destino decida chi sarà il prossimo.

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Oggi la comunità setina piange un'altra giovane donna, Cristina Tosto. Lottava da anni contro un male incurabile. A novembre avrebbe compiuto 45 anni. Insegnante, mamma di due ragazzi, donna dolce e riservata. Alla famiglia e ai familiari sentite condoglianze della redazione de LA NOTIZIA CONDIVISA.

 

 

 

Prendersi cura di un familiare con disabilità non è solo un impegno emotivo, ma anche un lavoro a tempo pieno che spesso entra in conflitto con gli obblighi professionali. Fino a pochi anni fa, questa realtà era invisibile sul piano legislativo: i caregiver familiari rischiavano discriminazioni, riduzioni di carriera o, nei casi più gravi, il licenziamento.

Una svolta storica

Il luglio 2025 segna una data importante per i diritti dei caregiver: la Corte di Cassazione, con l’Ordinanza n. 23185, ha stabilito che il licenziamento di un lavoratore che assiste un familiare disabile è illegittimo, a meno che il datore di lavoro non dimostri di aver tentato tutte le soluzioni possibili per conciliare esigenze lavorative e assistenza familiare.

In pratica, un’azienda non può licenziare un dipendente solo perché si prende cura di un figlio, un genitore o un fratello con disabilità. Al contrario, è obbligata a ricercare misure ragionevoli: flessibilità d’orario, telelavoro, permessi straordinari, rimodulazione dei carichi di lavoro.

Questa decisione segue anche la pronuncia della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, secondo cui la tutela contro la discriminazione indiretta per disabilità si estende ai genitori o ai caregiver di persone con disabilità, inserendo il principio di non discriminazione in combinazione con i diritti dei minori e la Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità.

Perché è una novità fondamentale

I caregiver familiari sono spesso invisibili, eppure costituiscono un pilastro sociale ed economico. In Italia si stima che oltre 3 milioni di persone si occupino di assistenza familiare non retribuita. La sentenza della Cassazione del 2025 riconosce che il diritto al lavoro non può essere messo in contrasto con il dovere di cura, sancendo che i caregiver hanno diritto a strumenti concreti per conciliare entrambe le responsabilità.

Strumenti di tutela disponibili

  • Permessi legge 104/1992:per genitori o familiari di persone con disabilità grave, fino a 3 giorni retribuiti al mese, cumulabili con altre forme di congedo.
  • Telelavoro e flessibilità:possibilità di rimodulare l’orario o lavorare da casa per conciliare gli impegni di cura.
  • Riconoscimento europeo:in Germania, Svezia, Finlandia e Francia, permessi retribuiti, indennità e tutele sul lavoro sono estesi ai caregiver familiari, con strumenti digitali per monitorare le esigenze e i diritti.

Buone pratiche in Italia

Alcune realtà italiane mostrano modelli virtuosi di tutela dei caregiver:

  • Comune di Milano:percorsi formativi e sportelli di consulenza legale per genitori e operatori pubblici.
  • Fondazione Dopo di Noi:supporto legale e programmi di accompagnamento per famiglie con figli disabili.
  • Cooperative sociali in Emilia-Romagna e Lazio:progetti di “respiro familiare” per conciliare lavoro e cura quotidiana.
  • Policy aziendali caregiver-friendly:grandi aziende italiane introducono telelavoro, permessi flessibili e supporto personalizzato, ispirandosi a modelli europei consolidati.

Perché parlarne è urgente

Riconoscere i diritti dei caregiver non è un atto di carità: è il segno concreto di una società che tutela chi è più vulnerabile e chi si prende cura di loro. Non si tratta di privilegi, ma di dignità, sicurezza economica e equilibrio tra lavoro e vita familiare.

“I diritti non possono dipendere dalla fortuna o dall’empatia del datore di lavoro.”

 

? Lo sapevi che…?

  • In Germania i caregiver familiari hanno diritto a congedi retribuiti fino a 10 giorni l’anno per emergenze sanitarie del familiare.
  • In Francia, esistono indennità mensili dedicate a chi assiste parenti disabili o anziani non autosufficienti.
  • In Italia, oltre 3 milioni di persone svolgono attività di caregiving familiare non retribuita.
  • Alcune aziende italiane hanno policy “caregiver-friendly” che includono telelavoro e permessi straordinari.
  • La sentenza Cassazione 23185/2025 obbliga il datore di lavoro a cercare tutte le soluzioni possibili prima di procedere a un licenziamento legato a responsabilità di cura.
Lunedì, 08 Settembre 2025 06:05

Cohousing intergenerazionale e disabilità

 

 

Una nuova idea di casa, comunità e futuro possibile

Immagina una casa dove ragazzi con disabilità, anziani soli e famiglie vivono insieme, condividendo spazi, tempo e piccoli gesti quotidiani. Non è un sogno, ma una realtà già concreta in diverse parti d’Italia: si chiama cohousing intergenerazionale.

Questi progetti abitativi nascono dal desiderio di superare due grandi sfide della società moderna:

  • la solitudine, che colpisce soprattutto gli anziani, ma non solo;
  • la mancanza di contesti inclusivi per persone con disabilità, che spesso faticano a conquistare spazi di autonomia.

In un cohousing, ogni persona ha il proprio spazio privato, ma sceglie anche di vivere in una comunità attiva e solidale, dove il supporto reciproco diventa naturale.

 

Esempi virtuosi in Italia

  • Milano – “Cohousing Porto 15”: un progetto che unisce famiglie, single e persone con fragilità in un condominio pensato per la socialità, con spazi comuni e attività condivise.
  • Bologna – “Condominio solidale Pantera Rosa”: giovani con disabilità abitano insieme ad anziani, creando una rete di sostegno reciproco. Gli uni portano energia e compagnia, gli altri mettono a disposizione esperienza e tempo.
  • Torino – “Casa di Zenzero”: un modello abitativo che integra residenzialità, laboratori e attività comunitarie, con un’attenzione particolare all’inclusione.

 

Il valore della rete

In queste esperienze emerge un concetto fondamentale: non si vive bene da soli.
Per un ragazzo con disabilità, poter contare sulla presenza di vicini attenti e disponibili significa non solo sentirsi più sicuro, ma anche sperimentare la libertà e la responsabilità dell’autonomia.
Per un anziano, invece, avere accanto giovani pieni di vitalità diventa un modo per rallentare la solitudine e sentirsi ancora parte di un tessuto sociale vivo.

La vera ricchezza sta nella reciprocità: ognuno dà quello che può e riceve quello che gli serve.

 

Un quartiere  a Sezze

Immaginiamo Sezze con un quartiere diverso dagli altri: un luogo dove anziani, ragazzi con disabilità e famiglie vivono fianco a fianco, condividendo non solo spazi ma anche momenti di vita.

Ogni appartamento mantiene la propria autonomia, ma al centro ci sono aree comuni: un giardino dove coltivare insieme, una sala per laboratori creativi e incontri, una cucina condivisa per le cene di comunità.

Gli anziani potrebbero offrire tempo, esperienza e ascolto; i ragazzi portare energia, entusiasmo e nuove competenze; le famiglie dare calore e sostegno quotidiano.
Il risultato? Una rete di cura reciproca, dove nessuno resta solo e ognuno diventa una risorsa per l’altro. Avete idea di quanta gente sola c’è a Sezze e senza una rete famigliare?

Un quartiere così potrebbe diventare un modello di inclusione e innovazione sociale, capace di trasformare Sezze in un esempio virtuoso per tutto il territorio pontino.

Da mamma so bene che questi progetti non possono nascere isolati nelle campagne setine, lontani da tutto. Perché l’inclusione non è chiudersi in una casa nel verde, ma vivere nel cuore del paese, dove i ragazzi possano andare a comprare il pane, incontrare amici in piazza, sentirsi parte della comunità ogni giorno. Solo così diventano davvero luoghi di vita e non semplici strutture.

Purtroppo però a Sezze parlare di cohousing e inclusione sembra quasi un sogno lontano, perché la realtà è che siamo anni luce indietro anche sulle cose più semplici. Manca persino un marciapiede sicuro dove anziani e bambini possano passeggiare senza rischi: l’unico tratto protetto resta quello intorno al Parco della Rimembranza. Il centro storico non ha ancora una ZTL che restituisca vivibilità ai vicoli, né piazze libere dalle auto dove incontrarsi in sicurezza. E, come se non bastasse, manca perfino un serio controllo con sanzioni per chi parcheggia sui marciapiedi, rendendo impossibile il passaggio a chi si muove a piedi o con una carrozzina. Senza queste basi minime, parlare di inclusione e innovazione è difficile: ma proprio da qui dovrebbe partire il cambiamento.

Una riflessione personale

So bene quanto sia forte il desiderio di assicurare ai propri figli un futuro dignitoso, indipendente e sereno. Pensare che possano vivere in un contesto dove non sono “ospiti” ma protagonisti attivi di una comunità è un sogno che prende forma concreta grazie a questi progetti.
Non si tratta solo di case, ma di nuove possibilità di vita.

 

Lo sapevate che...?

  • In Danimarca e nei Paesi Bassi il cohousing intergenerazionale è diffuso da oltre 40 anni, con risultati sorprendenti sulla qualità della vita.
  • In Italia, secondo un’indagine del Censis, più del 60% delle famiglie sarebbe favorevole a forme di abitare condiviso, ma molti non sanno che già esistono realtà attive e funzionanti.
  • Alcuni cohousing italiani organizzano “banche del tempo”: ore che i vicini si scambiano per cucinare, fare la spesa, dare ripetizioni ai ragazzi o semplicemente fare compagnia.

 

 

Per noi quest’anno ci sarà un passaggio importante: dalle medie alle superiori.
Il mese di settembre porta con sé, per tanti studenti, lo zaino nuovo, i quaderni pronti e l’emozione della campanella. Ma per tante famiglie, soprattutto quelle con figli con disabilità, porta anche preoccupazione e incertezza. Ogni passaggio – dalla materna alla primaria, dalla primaria alle medie e, ancor più, dalle medie alle superiori – diventa un salto nel vuoto.

“Chi troveremo quest’anno? Ci sarà continuità? Qualcuno capirà davvero nostro figlio?”.

La scelta della scuola: attitudini prima della comodità

La scelta della scuola superiore per un ragazzo con disabilità non dovrebbe mai basarsi sulla comodità o sulla vicinanza dell’istituto. Come per tutti gli studenti, deve fondarsi sulle potenzialità, attitudini e interessi del ragazzo, così da favorire crescita, autonomia e partecipazione attiva. Ogni percorso deve essere progettato su misura, senza compromessi.

Il nodo degli insegnanti di sostegno

Troppo spesso, gli insegnanti di sostegno vengono assegnati dalle graduatorie senza titolo specifico o preparazione adeguata. Il risultato? Ragazzi che avrebbero bisogno di figure competenti si ritrovano con professionisti volenterosi ma senza strumenti, oppure – peggio – con persone che vivono l’incarico come un ripiego.

I genitori sono costretti a sperare: sperare di incontrare l’insegnante empatico, capace di mettersi accanto al ragazzo, di costruire ponti con la classe. In Italia il destino scolastico di un bambino con disabilità è ancora troppo spesso affidato alla fortuna. Una fortuna che non può sostituire i diritti.

L’assenza di un progetto di vita

La precarietà nasce anche da un approccio frammentato: manca un progetto di vita personalizzato che accompagni il ragazzo lungo tutto il percorso scolastico. Ogni cambio di scuola diventa una roulette russa: bisogna ripartire da zero, spiegare ancora chi è il bambino o ragazzo, come se la sua storia non avesse memoria istituzionale.

Il ruolo del C.I.S.

Per evitare questi vuoti esiste il C.I.S. (Continuità dell’Inclusione Scolastica), documento da redigere ad ogni passaggio di ciclo scolastico con la partecipazione della famiglia, dei docenti e dei servizi socio-sanitari.

Il suo scopo è semplice ma fondamentale: trasmettere alla nuova scuola la storia, le strategie, i punti di forza e le fragilità dell’alunno.

Purtroppo, troppo spesso il C.I.S. viene compilato in ritardo, frettolosamente o ignorato. Senza di esso, la scuola riparte da zero e chi ne paga le conseguenze sono i ragazzi e le famiglie.

E all’estero come funziona?

In molti Paesi europei, i passaggi tra cicli scolastici sono supportati da piani individualizzati pluriennali, costruiti con famiglia, insegnanti e servizi sociali. Così non si perde continuità e la figura dell’insegnante di sostegno diventa stabile e qualificata. In Spagna, Belgio e Germania molte scuole prevedono un “tutor di inclusione” stabile, che segue lo studente con disabilità per più anni scolastici, fungendo da ponte tra famiglia, docenti e servizi socio-sanitari. In Italia questa figura è ancora rara, ma potrebbe ispirare futuri progetti.

La fortuna non basta

Un bambino non dovrebbe aver bisogno di “angeli” o miracoli per vedere riconosciuto il suo diritto all’istruzione. Non può dipendere dal caso se l’insegnante è preparato, se la scuola è inclusiva, se il dirigente è sensibile.
Una scuola giusta si costruisce con formazione, continuità e responsabilità, non con la fortuna.

-  Box pratico – C.I.S. e PEI: strumenti chiave per l’inclusione

Il C.I.S. e il PEI (Piano Educativo Individualizzato) sono due strumenti complementari e obbligatori per legge:

  • I.S. →Assicura continuità tra un ciclo scolastico e l’altro.
  • PEI →Definisce il percorso educativo annuale: obiettivi, strategie didattiche, strumenti compensativi, modalità di verifica.

Cosa fare come genitori:
✅ Chiedere il PEI e il C.I.S. per tempo.
✅ Partecipare attivamente alla loro redazione: raccontate punti di forza, fragilità e strategie efficaci.
✅ Assicurarsi che il PEI sia coerente con il C.I.S., così da garantire continuità educativa tra cicli.
✅ Richiedere copia aggiornata di entrambi i documenti; verificare che vengano trasmessi alla nuova scuola.
✅ Ricordare che sono diritti, non cortesia.

 -  Suggerimento pratico: annotate tutte le strategie che funzionano (compiti, approccio didattico, strumenti digitali, aiuti relazionali), così saranno riportate sia nel PEI sia nel C.I.S.

La ripresa scolastica non dovrebbe essere un incubo per le famiglie, ma un momento di crescita e fiducia.
Se davvero vogliamo parlare di inclusione, dobbiamo garantire stabilità, competenze e ascolto. Non servono promesse, servono strutture che funzionino.

“Con la giusta preparazione, continuità e ascolto, ogni passaggio scolastico può diventare un’opportunità di crescita e inclusione per tutti.”

Lo sapevi che…? – Novità anno scolastico 2025/2026

  1. Più insegnanti di sostegno nelle scuole
    Sono stati assunti 7.820 nuovi docenti di sostegno, portando il totale a circa 121.879 insegnanti di ruolo. Ora l’organico copre il 95,2% dei posti previsti, garantendo maggiore continuità educativa per gli studenti con disabilità.
  2. Continuità didattica per i supplenti
    Per la prima volta, è prevista la possibilità di riconfermare i supplenti di sostegno(annuali o fino al 30 giugno) che abbiano instaurato un buon rapporto educativo con lo studente.
    Le famiglie possono richiedere la continuità entro il 31 maggio, e i dirigenti scolastici devono valutare se le condizioni per la conferma sussistono, garantendo stabilità e sicurezza ai ragazzi.
  3. Il sostegno cresce… ma serve formazione
    L’aumento degli insegnanti di sostegno è importante, ma la qualità della formazione resta fondamentale. Non basta il numero: servono competenze specifiche, aggiornamenti costanti e sensibilità educativa per garantire inclusione reale.

 

 

Sezze Scalo affoga nei rifiuti. Quella che dovrebbe essere una tranquilla passeggiata in bicicletta tra le strade della cittadina e le zone verdi circostanti si trasforma in un percorso a ostacoli tra sacchi di plastica, bottiglie vuote, pneumatici abbandonati e cumuli di immondizia che invadono marciapiedi e terreni. Le immagini parlano da sole: una discarica a cielo aperto ha preso il posto del decoro urbano, costringendo cittadini e visitatori a convivere con uno spettacolo indegno e dannoso per la salute pubblica.


ll caso del Lago Mole Muti


Uno dei simboli più amati del territorio, il Lago Mole Muti, versa oggi in condizioni di abbandono. Dopo anni di gestione da parte di Acqualatina, nel 2022 il sindaco Lidano Lucidi ha deciso di riprendere in mano direttamente lo stabile e l’area circostante, sottraendone la gestione. La scelta, annunciata come una svolta per restituire ai cittadini un bene comune, si è trasformata in un boomerang.
A distanza di tempo, il risultato è sotto gli occhi di tutti: nessun piano concreto di rilancio, nessuna manutenzione e uno stato di incuria che ha reso il lago uno degli esempi più evidenti del degrado cittadino. Dove una volta c’era un’oasi naturale, oggi si trovano sponde sporche, rifiuti abbandonati e strutture lasciate al loro destino. Un patrimonio ambientale che rischia di essere cancellato dall’indifferenza politica. Oltre a questo, chi pagherà per il Progetto fallito “Green Change”. Lo ricordate?
Progetto “GreenChange” e la zona umida del Lago Pani
• Titolo del progetto: Riqualificazione delle sorgenti dell’Ufente e del Lago Pani, nell’ambito del programma europeo Life 2017 – GreenChange.
• Anno di approvazione: Il 2023 è stato l’anno in cui il presidente della Provincia di Latina, Gerardo Stefanelli, ha firmato il decreto di approvazione del progetto definitivo.
• Finanziamento: L’investimento complessivo ammonta a 119 mila euro, finanziati attraverso il programma europeo.
• Obiettivo: Creare e ripristinare piccole zone umide lungo il fiume Ufente e il Lago Pani, ricostruendo ambienti igrofili e idrofili (quelli che dipendono dall’acqua), oggi scomparsi o degradati a causa della conversione agricola delle aree. L’intento è aumentare la funzionalità ecologica, la biodiversità e contribuire alla rinaturalizzazione della pianura pontina.

 

Lo stato attuale: un progetto sulla carta, un disastro sulla terra


Nonostante l’approvazione e il finanziamento, la zona circostante il Lago Pani è lontana da una vera rinascita. Le aree restano gravemente abbandonate, con rovi e vegetazione incolta che predomina, mentre le strutture evocative dell’antico complesso idroelettrico – dalla mola alla canalizzazione – sono puntualmente ignorate. Tutti i ponticelli in legno e il percorso verde creato con questo progetto distrutti.
l fallimento politico e ambientale
Sezze Scalo continua a pagare il prezzo di una politica incapace di trovare risposte concrete. Il progetto della Provincia, carico di buone intenzioni, rischia di rimanere un’opera nel cassetto, mentre la popolazione convive con l’abbandono e l’incuria. L’assenza di interventi tangibili denota non solo una mancanza di visione, ma una vera e propria carenza di responsabilità.
Strade dissestate: la ferita dei lavori per la fibra
Come se non bastasse, le strade di Sezze Scalo sono state devastate dai lavori per la posa della fibra ottica. Buche, rattoppi malfatti e tratti dissestati rendono pericoloso persino muoversi in bicicletta o in auto. Quella che doveva essere un’opera di modernizzazione si è trasformata in un incubo quotidiano, lasciando l’asfalto in condizioni vergognose e senza alcun controllo da parte dell’amministrazione.


La voce dei cittadini


Le proteste si moltiplicano. Residenti denunciano una situazione insostenibile, che non solo mina l’immagine della città, ma mette a rischio l’ambiente, la sicurezza e la salute. “Non possiamo più fare una passeggiata, né portare i bambini a giocare. È diventata una discarica diffusa e le strade sono trappole”, raccontano amareggiati alcuni abitanti.
Il fallimento dell’amministrazione
Quello che emerge è un quadro di totale fallimento da parte dell’amministrazione comunale. La mancata gestione dei rifiuti, l’abbandono del Lago Mole Muti e lo scempio delle strade dopo i lavori per la fibra rappresentano non solo segni di incuria, ma il simbolo di un governo locale incapace di prendersi cura della propria comunità.
Sezze Scalo merita di meglio. I cittadini chiedono interventi immediati e concreti: bonifica delle aree, pulizia costante, manutenzione stradale e una gestione trasparente delle zone naturalistiche. La comunità non può continuare a vivere in mezzo ai rifiuti e alle buche, né permettere che i suoi luoghi simbolo vengano cancellati dall’indifferenza politica.

 

 

 

 

Parlare di disabilità è già, in molti casi, rompere il silenzio. Ma parlare di sessualità, affettività, desiderio e relazioni quando c’è una disabilità — fisica, intellettiva o sensoriale — significa affrontare un tabù dentro al tabù.

Eppure, le persone con disabilità amano, desiderano, sognano, si innamorano, si arrabbiano, si spezzano il cuore come chiunque altro. Hanno il diritto — umano, prima ancora che sociale — di vivere relazioni intime, affettive e sessuali. Ma troppo spesso, il contesto familiare, educativo e culturale ancora li infantilizza, li isola, o li ignora.

La domanda negata

“Ma davvero ha questi bisogni?”
“Ma cosa vuoi che ne sappia l’amore?”
“Ma non è meglio proteggerlo?”

Queste domande, anche quando dette in buona fede, svelano un pregiudizio radicato: quello secondo cui la disabilità annullerebbe il corpo, l’identità, la crescita emotiva. Come se bastasse una diagnosi per spegnere i sentimenti.

In realtà, molte persone con disabilità — soprattutto intellettiva o sensoriale — vengono cresciute senza alcuna educazione affettiva e sessuale, come se la loro vita fosse una lunga infanzia.

Il bisogno di educazione (per tutti)

In Italia esistono ancora pochi percorsi di educazione affettiva e sessuale accessibile: sia nelle scuole, sia nei servizi per la disabilità. Eppure sarebbe fondamentale:

  • per prevenire abusi(più frequenti nelle persone con disabilità intellettiva o cognitiva);
  • per insegnare il consenso, la cura, i limiti, l’igiene, l’espressione del sé;
  • per accompagnare i genitori, spesso confusi, impreparati, spaventati;
  • per sostenere la dignitàdell’individuo, al di là delle aspettative sociali.

I genitori: tra amore e protezione

Chi ha un figlio con disabilità si trova spesso solo ad affrontare il tema. Alcuni reagiscono con rifiuto (“non è pronto, non è adatto”), altri con paura (“non voglio che soffra, che venga preso in giro”), altri ancora con pudore o senso di colpa.

Ma ignorare il problema non lo cancella, lo amplifica. Per questo è fondamentale creare spazi di ascolto, confronto e sostegno anche per le famiglie.

Esperienze che rompono il silenzio

Alcune realtà italiane stanno finalmente aprendo strade nuove. Tra queste:

  • Fondazione Dopo di Noiha attivato laboratori sull’educazione all’affettività per giovani con disabilità intellettiva.
  • LoveGiver, un progetto che promuove il dibattito sull’assistenza sessuale (oggi non riconosciuta in Italia).
  • Cooperative e associazioni che propongono percorsi individuali o di gruppo su emozioni, relazioni e sessualità consapevole.

E a Sezze, da dove iniziare?

Anche a Sezze è tempo di rompere il silenzio e costruire consapevolezza. Parlare di affettività e sessualità nella disabilità non significa scandalizzare o forzare, ma dare voce a bisogni reali e spesso ignorati.

Il Comune, insieme a scuole, centri diurni, associazioni e famiglie, potrebbe:

  • Attivare incontri pubblici e laboratorisull’educazione affettiva e relazionale, accessibili e pensati per le diverse disabilità;
  • Formare educatori, operatori sociali, insegnanti e genitori, per affrontare il tema con competenza, rispetto e apertura;
  • Favorire spazi sicuri di confrontoper le persone con disabilità, dove possano esprimersi senza giudizio, esplorare le proprie emozioni e ricevere strumenti adeguati;
  • Promuovere una cultura del consenso, della cura e dell’autonomiarelazionale, anche all’interno dei progetti del “Durante e Dopo di Noi”.

Affettività non è solo “sesso”

Vivere l’affettività non significa solo avere rapporti sessuali. Significa potersi sentire amati, desiderati, legittimati a provare emozioni e a viverle in modo autentico e rispettoso. Significa che anche le persone con disabilità hanno diritto alla bellezza di una carezza, alla scelta di stare in coppia, alla possibilità di una relazione, anche complessa.

Una questione di diritti, non di opinioni

L’art. 23 della Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità (ratificata dall’Italia nel 2009) riconosce il diritto alla vita affettiva e sessuale. Non è un “optional” o una scelta educativa, è un diritto umano fondamentale.

Conclusione

“A nessuno dovrebbe essere negata la possibilità di amare.”

Quando parliamo di inclusione, dobbiamo avere il coraggio di parlare anche di emozioni, corpo, intimità, piacere. Perché una società che nega questi aspetti a una parte dei suoi cittadini, non è davvero una società giusta.

Lo sapevi che...?

 Il 70% delle persone con disabilità intellettiva non riceve alcuna educazione affettiva o sessuale?
Eppure sono tra le più esposte al rischio di abusi o relazioni non consapevoli.

 In Italia non esiste ancora una legge nazionale che garantisca l’educazione sessuale nelle scuole?
E questo vale anche (e soprattutto) per chi ha disabilità.

 Il termine “assistenza sessuale” è riconosciuto in molti Paesi europei ma non ancora in Italia?
Esiste un movimento attivo, LoveGiver, che ne promuove il riconoscimento per garantire dignità, sicurezza e libertà.

 Le persone con disabilità sognano l’amore, come tutti.
Ma molto spesso, la società le considera “eterne bambine”, negando loro esperienze relazionali, anche semplici.

 In alcuni progetti italiani si lavora sull'affettività anche con ragazzi autistici, usando immagini, giochi, roleplay e storie personalizzate.
L’affettività può (e deve) essere insegnata, con gli strumenti giusti.

 Molti genitori pensano che “non parlarne” sia una forma di protezione.
In realtà, è proprio il silenzio a creare più vulnerabilità e isolamento.

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La rubrica "Oltre l'Apparenza" curata da Annalisa Savelli riprenderà a settembre. Buone vacanze.

 

 

 

 

 

Terremoti, incendi, alluvioni e  black-out improvvisi, quando scatta l’emergenza, ogni secondo è prezioso, ma per milioni di persone con difficoltà motorie, sensoriali o cognitive , mettersi in salvo può essere molto più complesso. Le barriere non sono solo fisiche: sono organizzative, culturali e spesso invisibili agli occhi di chi pianifica la sicurezza per “la maggioranza delle persone”.

Molti piani di Protezione Civile comunali o aziendali non prevedono protocolli specifici per assistere le persone con disabilità in caso di evacuazione. Scale antincendio impraticabili, assenza di segnali visivi o acustici adeguati, personale non formato, centri di raccolta non accessibili: questi elementi rendono il soccorso non equo e, in alcuni casi, impossibile.

Le famiglie si trovano sole, senza sapere come comportarsi o chi chiamare. E chi vive da solo, spesso, nemmeno è mappato nei sistemi di emergenza.

Barriere fisiche, comunicative e culturali

  • Le barriere architettonicheimpediscono movimenti rapidi o autonomi.
  • Le barriere informativenon tengono conto di chi non può leggere, vedere, sentire, comprendere messaggi complessi.
  • Le barriere culturaliescludono le persone con disabilità dalla pianificazione, considerandole un “caso a parte”.

Esistono buone pratiche, e alcuni Comuni più attenti hanno iniziato a lavorare sull’emergenza inclusiva. Ad esempio:

  • Bolognaha inserito la disabilità nei suoi piani comunali di Protezione Civile, coinvolgendo associazioni e creando percorsi formativi.
  • Trentoha previsto la mappatura delle persone fragili, su base volontaria, per organizzare un soccorso mirato.
  • Milanoha realizzato simulazioni inclusive, con la partecipazione attiva di famiglie e caregiver.

Norme di riferimento: cosa dice il Codice della Protezione Civile?

 

   Il D.Lgs. n. 1/2018, noto come Codice della Protezione Civile, stabilisce l’obbligo di considerare le persone con specifiche necessità – tra cui quelle con disabilità fisiche, sensoriali, cognitive o temporanee – nella pianificazione delle emergenze.
L’articolo 48 del decreto impone a Comuni, Regioni e autorità locali di predisporre misure adeguate per garantire la sicurezza e il soccorso anche ai cittadini fragili

Una norma chiara, ma troppo spesso disattesa. Applicarla davvero significa salvare vite e costruire una protezione civile davvero per tutti.

Le nuove indicazioni operative del 10 marzo 2025: un passo decisivo per l’inclusione in emergenza

Il 10 marzo 2025, il Capo del Dipartimento della Protezione Civile, Fabio Ciciliano, ha firmato le nuove “Indicazioni operative per la pianificazione degli interventi a favore delle persone con specifiche necessità”, pubblicate nella Gazzetta Ufficiale n.68 del 22 marzo.

 Questo documento rappresenta la prima strategia organica per includere le persone con disabilità fisiche, sensoriali, cognitive o temporanee nei piani di Protezione Civile.

Il testo istituisce criteri precisi per le amministrazioni locali, invitandole a:

  • predisporre censimenti volontaridelle persone fragili;
  • garantire comunicazioni accessibili(es. in LIS o linguaggio semplice);
  • realizzare punti di raccolta inclusivie allenamenti con le famiglie;
  • formare volontari, operatori e scuolealla sicurezza inclusiva

È una novità concreta: offre basi operative, non simboliche, per costruire comunità dove nessuno venga lasciato indietro in situazioni di pericolo.

 

Cosa può fare un Comune come Sezze

Il Comune di Sezze ispirandosi alle Indicazioni operative 2025 per una pianificazione d’emergenza inclusiva potrebbe creare una guida pratica insieme alla Protezione Civile del  Comune di Sezze con l’obiettivo di garantire che nessun cittadino con disabilità sia lasciato solo in caso di emergenze (terremoti, incendi, alluvioni, evacuazioni). Si potrebbe fare:

Un Censimento volontario delle persone con disabilità.

 Creare un registro (riservato e protetto) delle persone con disabilità motorie, sensoriali, intellettive o condizioni temporanee di fragilità.
 Compilazione tramite Servizi Sociali, medici di base, associazioni locali, scuole.
 Finalità: sapere dove si trovano, chi vive con loro, e di quali ausili o supporti hanno bisogno.

Un Piano comunale aggiornato con sezioni inclusive

 Integrare nel Piano di Protezione Civile sezioni dedicate a:

  • modalità di evacuazione assistita (es. ascensori d’emergenza, percorsi accessibili);
  • punti di raccolta privi di barriere;
  • trasporti e mezzi idonei;
  • operatori formati.

Formazione degli operatori e volontari

Coinvolgere la Protezione Civile locale, la Croce Rossa, i Servizi Sociali e la scuola per:

  • corsi brevi su come assistere persone con disabilità motoria, sensoriale, cognitiva o con disturbi dello spettro autistico;
  • simulazioni pratiche con le famiglie.

Creare Comunicazioni accessibili

 Diffondere materiali informativi in: linguaggio semplice; video LIS; formati audio e testi ingranditi; infografiche illustrate per i social del Comune.

Nominare di un referente disabilità per le emergenze, un punto di contatto tra il Comune e le famiglie in caso di eventi critici, per coordinare risposte rapide e personalizzate.

 

Supportare Campagne di sensibilizzazione

Organizzare giornate annuali con:

  • prove di evacuazione inclusive nelle scuole e nei centri diurni;
  • incontri pubblici con famiglie e operatori;
  • condivisione delle buone pratiche sui canali istituzionali.

Lo sapevi che...?

 Il 70% delle persone con disabilità vive in edifici non accessibili ai soccorsi rapidi?

In Giappone, dopo il terremoto del 2011, si è scoperto che le persone con disabilità avevano il doppio delle probabilità di morire rispetto alla popolazione generale. Da allora, sono stati introdotti sistemi di “aiuto tra pari” nei quartieri.

 In Italia, esistono App gratuite come “Allarme Sociale” e “JARVIS” (per comunicazioni in caso di emergenza a persone sorde) pensate per aumentare l’autonomia.


In caso di emergenza, nessuno deve essere lasciato indietro: rendere i piani di evacuazione accessibili e inclusivi non è un favore, ma un diritto.
Ogni comunità che si prepara insieme è una comunità che si salva insieme.

❝Non esistono persone vulnerabili. Esistono sistemi impreparati. ❞
- Parafrasando un principio delle Nazioni Unite-

Parlare di emergenze non significa alimentare paure, ma costruire consapevolezza.
Un passo in più oggi può fare la differenza domani.

 

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