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Comunicato stampa Area Schlein PD Sezze

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Noi crediamo nel Partito Democratico, il quale è la nostra casa, il nostro orizzonte ideale e politico.
La nostra storia personale racconta una appartenenza e un impegno continuo con ruoli e responsabilità diverse nel PD.
Sezze ha bisogno di un PD forte ed autorevole, capace di incarnare la prospettiva progressista, di farsi interprete della domanda di partecipazione, di costruire una nuova stagione di progresso.
Un anno fa abbiamo sostenuto alle primarie nazionali Elly Schlein. A Sezze, come avvenuto a livello nazionale, il risultato è stato netto: i cittadini hanno bocciato cacicchi e signori delle tessere.
La ventata di cambiamento, ripetutasi anche in occasione delle primarie per il segretario regionale, è stata volutamente ignorata e alcuni maggiorenti del partito, clamorosamente bocciati dalle primarie e prima ancora responsabilità della sonora sconfitta delle ultime amministrative, si sono arroccati ulteriormente in una autoreferenzialità senza futuro .
Sono svariati mesi che il Partito Democratico langue in una condizione di inettitudine politica e di incapacità di dare voce ad una opposizione seria verso una amministrazione comunale inefficace e priva di visione politica.
Dopo l'ennesime dimissioni dell'ultima segretaria, riprova di una crisi strutturale, il Partito Democratico si appresta a celebrare il congresso cittadino in un contesto di tesseramento compiuto in palese violazione delle regole statutarie e pertanto inaccettabile.
Il Partito Democratico di Sezze ha bisogno di ritrovare se stesso, la propria anima, la militanza di tanti cittadini che se ne sono allontanati amareggiati e delusi e non di celebrare un rito vuoto.
Serve una nuova stagione per il PD di Sezze, serve una politica che si occupa dei problemi dei cittadini, di sviluppo economico, lavoro, pari opportunità, integrazione, sicurezza, nuove tecnologie, servizi sociali e politiche culturali e non la riproposizione di logiche stantie e perdenti.


Zona Schlein Sezze

Sabato, 09 Marzo 2024 17:21

Lasciamo le mimose sugli alberi

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L’8 marzo non è la festa della donna, ma la giornata internazionale dei diritti della donna. La differenza non è nominalistica ma sostanziale.
 
Lasciamo le mimose sugli alberi, anche perché in casa dopo un po’ fanno cattivo odore, e smettiamo di ridurre la questione femminile ad un’occasione festaiola.
 
Troppo spesso il gesto di un fiore regalato o ricevuto, segno semplice di un rispetto non scontato, rischia di farci perdere di vista l’urgenza di un impegno non estemporaneo e occasionale per il raggiungimento di una reale parità di genere.
 
La condizione di disuguaglianza in cui vivono milioni di donne, anche nei nostri paesi occidentali, costrette a rivendicare con la vita la loro stessa dignità, il rispetto mai conosciuto e il diritto ad essere se stesse è inaccettabile.
 
Nonostante il progresso sociale e culturale, violenze e soprusi sono ancora e sempre l’arma più frequente dell’incessante negazione della parità.
 
Molti sono i passi avanti, le libertà e i diritti conquistati, ma sarebbe un errore abbassare la guardia e darli per scontati, tanto più che ciclicamente vengono rimessi in discussione e limitati subdolamente.
 
Troppe le donne sono costrette a scegliere tra lavoro e famiglia, magari vincolando la propria assunzione a concrete garanzie di non rimanere incinte, a rinunciare preventivamente ai figli per inseguire il sogno della realizzazione personale, anche ricorrendo all’aborto in assenza di opzioni alternative.
 
Peraltro non è affatto trascurabile che si dia sempre per scontato che nelle famiglie a dover rinunciare alla propria carriera debbano essere necessariamente ed esclusivamente le donne.
 
Il processo di emancipazione fin qui perseguito non ha impedito di mantenere la donna, pur con le dovute proporzioni rispetto al passato, in posizione di sudditanza economica, sociale e culturale.
 
Le cronache quotidiane traboccano di delitti perpetrati contro le donne da mariti, compagni e fidanzati e non c’è differenza di età e condizioni sociali. Un fenomeno ormai endemico, che dovrebbe indurci a interrogarci su un qualcosa che sembra tracimare oltre il semplice dato criminale e spingerci ad una profonda analisi sociale e antropologica. L’omicidio è spesso l’ultimo atto di una lunga serie di violenze di ex-partner, mariti o spasimanti che non accettano la fine della relazione o un rifiuto.
 
L’incapacità e la paura di molte donne di reagire di fronte ad angherie, soprusi e violenze compiute ai loro danni sono conseguenza anche della scarsa autonomia economica, oltre che un retaggio culturale retrogrado dal quale non siamo ancora riusciti a staccarci definitivamente.
 
Ridurre l’8 marzo a una banale festa, magari accompagnata da cene e spogliarelli di giovani uomini, è oltraggioso e irrispettoso per le donne partigiane che hanno sacrificato, se non la vita, gran parte della giovinezza per garantirci diritti e libertà, per le donne dell’Assemblea Costituente che ci hanno donato la Costituzione, per le donne costrette a prostituirsi, picchiate e segregate, per le bambine date in sposa a uomini senza scrupoli, per le ragazze costrette a matrimoni combinati e spesso assassinate in caso di rifiuto, per le donne che vivono sotto regimi dittatoriali cui sono negati i diritti fondamentali, per le donne dei paesi in guerra che cercano con tutte le proprie forze di sopravvivere e sacrificano la propria vita pur di proteggere i figli, per le donne che fuggono da guerre, fame, sete, malattie, soprusi e miserie e affrontano viaggi per terra e per mare in condizioni disperate e indegne nel tentativo di offrire ai figli un futuro migliore.
 
Occorre un cambio di passo.
 
Continuare a parlare pervicacemente e vergognosamente di questione femminile, da una parte secondo una logica meramente rivendicazionista e dall’altra con una impostazione che sottende l’idea delle donne come un gruppo sociale svantaggiato o un “genere” da uguagliare e tutelare sulla base dell’ordine creato dal sesso dominante, finisce per fare da velo alla perpetuazione dei rapporti di potere consolidati, a forme di dominio che la storia ha conosciuto nella nostra come nelle altre civiltà e a non perseguire l’obiettivo di costruire, partendo dalla singolarità delle vite e delle esperienze personali, una diversa idea delle relazioni tra donne e uomini.

 

Per rafforzare l'educazione ambientale nei programmi scolastici, Adriano Salvatorireferente provinciale della nostra associazione per Latina, ha continuato il suo impegno all'Istituto comprensivo "Pacifici" di Sezze (LT). Dopo un primo incontro il 4 marzo, che ha coinvolto 60 studenti di due terze e due quarte, con il supporto di Silvia Salvatorivicereferente provinciale di Latina, ed Eleonora Rossireferente comunale di Maenza (LT), Salvatori ha tenuto nella mattinata odierna una nuova sessione. Questa volta, si è rivolto da solo a 150 studenti delle classi seconde, dalla 2A alla 2G. L'iniziativa aveva l'obiettivo di integrare le tematiche ambientali con un progetto scolastico, già attivo, sulla legalità

Salvatori ha spiegato agli studenti come gesti apparentemente innocui, come gettare una cicca di sigaretta o rilasciare un palloncino in aria, possano avere conseguenze legali e ambientali gravi. Ha sottolineato che una singola cicca può contaminare fino a 100 litri d'acqua e un palloncino può intrappolare e uccidere gli esseri viventi, suscitando stupore tra i ragazzi per la rivelazione di queste realtà spesso sottovalutate. Durante l'incontro, è stato affrontato anche il tema dell'ignoranza e dell'omertà riguardo all’abbandono di rifiuti in natura, per evidenziare l'importanza di non ignorare i comportamenti scorretti, nemmeno quelli dei compagni di classe. Salvatori ha inoltre fornito consigli pratici su come fare la spesa in modo ecosostenibile e come correggere gli atteggiamenti non sostenibili dei genitori.

L'iniziativa ha stimolato un dialogo costruttivo tra gli studenti e i loro insegnanti sulle questioni ambientali, culminando con la richiesta di Salvatori di individuare tra gli insegnanti dei referenti per il Comune di Sezze. Due insegnanti hanno risposto positivamente, proponendosi per il ruolo, segnando un altro passo in avanti nella collaborazione tra la scuola e la nostra associazione per promuovere la consapevolezza ambientale tra i giovani e i meno giovani.

 

 

E' stato deferito all'autorità giudiziaria un uomo di Sezze ritenuto responsabile del furto di circa 50 tombini e griglie in ghisa avvenuto nei giorni scorsi nel centro storico di Sezze. Le indagini dei Carabinieri di Sezze in collaborazione con gli agenti della Polizia Locale di Sezze seguiranno, e non è escluso che possano esserci altri e nuovi sviluppi. Il comandante della Polizia Locale Lidano Caldarozzi sottolinea quanto importante sia stato il controllo delle immagini del sistema di videosorveglianza della città, grazie al quale è stato identificato l'uomo ritenuto responsabile del reato. 

 

 

Eccolo,  l’obiettivo di “Rebus Banksy”, il nuovo disco-libro di Andrea Del Monte: andare al di là del nome e approfondire, attraverso alcune delle massime forme d’arte, tutti i significati che le opere dello stesso writer inglese possono offrire: emozioni, sentimenti, riflessioni e note.  Dunque al giovane cantautore di Latina non interessa l’identità di Banksy. A tale proposito, dichiara: “Per me l’identità del writer può restare un rebus; a  me appassiona la sua arte, o meglio,  il messaggio delle sue opere”. E al messaggio di dieci sue  opere si sono ispirati altrettanti poeti per scrivere le poesie che poi lo stesso Del Monte ha musicato e cantato con la collaborazione di John Jackson (storico chitarrista di Bob Dylan), Fernando Saunders (produttore e bassista di Lou Reed), Gino Canini (trombettista di Jovanotti, che ha contribuito musicalmente al film La grande bellezza di Paolo Sorrentino) e di Ezio Bonicelli (violinista e chitarrista di Giovanni Lindo Ferretti e dei CCCP). Le canzoni/poesie si possono ascoltare dal Qr code di Spotify posto nella bandella della quarta di copertina dello stesso libro, pubblicato da Ensemble. Questi i poeti: Vivian Lamarque, Antonio Veneziani, Renzo Paris, Elisabetta Bucciarelli, Geraldina Colotti, Susanna Schimperna, Giorgio Ghiotti, Gino Scartaghiande e Fernando Acitelli. Una poesia l’ha scritta lo stesso cantautore pontino. In pratica, in questo nuovo disco-libro Del Monte incrocia musica, poesia e narrativa. Nelle canzoni la sua voce profonda si mescola con un genere musicale elettronico ma di matrice folk, dove strumenti musicali acustici e non acustici si fondono con l’ausilio dell’elettronica e dove addirittura nella canzone di chiusura “Un filo che sfugge alla vita”, come in un divertissement, Del Monte si cimenta nell’utilizzo dell’autotune per il suo ritornello. Il disco in particolare scivola tra momenti più energici come nella canzone ‘Goal planetario’ con tanto di tromba suonata da Gino Canini, fino ad arrivare alla “Filastrocca in disarmo”, brano tristemente attuale scritta dalla poetessa vincitrice del “Premio Strega poesia” Vivian Lamarque, in cui il violino di Bonicelli rende il tutto struggente. Circa il libro, oltre alle stesse poesie,  contiene anche dieci racconti scritti da Antonio Pennacchi (Premio Strega 2010), Antonio Rezza e Flavia Mastrella (entrambi “Leone d’oro” alla carriera), Angelo Mastrandrea, Alessandro Moscè, Marcello Loprencipe, Diego Zandel, Helena Velena e Ugo Magnanti. Anche loro sono scrittori famosi e, come gli stessi poeti, si sono ispirati ai messaggi delle dieci opere. Ma se le poesie sono state, per certi versi, “uniformate” dalla musica e dalla voce di Del Monte, i racconti invece sono solo “uniti” dalla stessa fonte d’ispirazione: la street art di Banksy. Il disco-libro comprende inoltre quattro interviste ad altrettanti esponenti del mondo artistico in tutte le sue declinazioni: Vittorio Sgarbi, Vauro Senesi, Sabina De Gregori e Giuseppe Pollicelli. Da ricordare infine che le dieci opere di Banksy  sono state rivisitate e reinterpretate da Jacopo Colabattista.  Andrea Del Monte è chitarrista, cantautore e compositore. Ha partecipato allo storico festival “Il Cantagiro” nel 2007, vincendo il premio della critica. Si è più volte esibito a “Casa Sanremo” e al “Sanremo Off” e in alcune tappe di Radio Italia. Al suo primo EP collaborano John Jackson e il musicista ed etnomusicologo Ambrogio Sparagna. Ha pubblicato il libro “Brigantesse, storie d’amore e di fucile”. il cui disco allegato si apre con l’intervento di Sabrina Ferilli. Per Ensemble ha pubblicato il libro disco “Puzzle Pasolini”  con il quale ha ricevuto in Campidoglio i Premi “Microfono d’oro”, “Antenna d’oro per la TIVVU” e il “Sette Colli” e, a Lanuvio, il premio speciale del “CROFFI Castelli Romani Film Festival”.

Domenica, 03 Marzo 2024 08:04

Facce di adolescenti e manganelli

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Facce di adolescenti, zainetti sulle spalle e negli occhi l’entusiasmo di chi scende in piazza per ritrovarsi in un noi, per sentirsi parte di un’idea condivisa, per chiedere pace per una terra martoriata da un conflitto antico e non si intende e neppure è interessato a sottigliezze e distinguo, all’equilibrismo del politicamente corretto.
 
Pensano il mondo in bianco e in nero, diviso tra giusto e sbagliato, senza sfumature.
 
Facce di adolescenti, nulla più.
 
Non pericolosi estremisti o facinorosi, terroristi o violenti, ma ragazzi e giovani che non si sono lasciati risucchiare dal vortice dell’indifferenza e rinchiudere nel piccolo recinto del proprio egoismo.
 
Mani alzate, unica sfida pacifica a caschi, manganelli e scudi di quanti sono chiamati a tutelare ordine e sicurezza nelle strade e nelle piazze, ma anche il diritto sacrosanto e irrinunciabile di quanti in quelle strade e piazze vogliono scendere per dire di esserci con le proprie idee e la propria visione del mondo.
 
È la democrazia.       
 
Nessuna violenza e intemperanza dagli adolescenti in piazza.
 
Lo raccontano le immagini, le uniche a non mentire.
 
Risuonano ordini secchi. Partono le cariche di alleggerimento.
 
Parole che suonano grottesche.
 
E sono botte, sangue e lacrime.
 
I feriti vengono ricoverati per lo più nei reparti di pediatria.
 
Pediatria….. Un dettaglio che racconta la palese assurdità e insensatezza di una scelta totalmente sbagliata, l’ottundimento della ragione di chi dovrebbe tutelare i cittadini, i loro diritti e le loro libertà, compresa quella di dissentire dalla vulgata propinata dall’opinione dominante, e si ritrova a malmenare dei ragazzini.
 
Matteo Piantedosi, elegante funzionario d’apparato, che fa sempre il baciamano a Giorgia Meloni, mostrando la gentilezza esagerata del sottoposto che si inchina per zelo d’obbedienza, appena sale sulla plancia di comando del Ministero dell’Interno, raddrizza la schiena e assume le vesti dell’inflessibile custode di “Legge e Ordine”, dell’ossessione securitaria della destra al governo, che moltiplica i reati per i poveracci e rende immuni i collettivi bianchi, restringe la sfera delle opportunità per i poveri e scatena la guerra contro le navi di soccorso nel Mediterraneo, chiama gli immigrati scampati ai naufragi carichi residuali e arresta i minori, circonda e disperde i rave party, definendoli fattispecie penali, e carica gli adolescenti in piazza, identifica un loggionista che alla Scala di Milano grida “Viva l’Italia antifascista” e chi depone un fiore per Aleksej Naval'nyj, muove drappelli in assetto di guerra contro i blocchi stradali degli ambientalisti e lascia campo libero alle marce dei trattori che minacciano di cospargere le strade di letame, abolisce il reato di abuso d’ufficio e tollera le braccia tese dei camerati che inneggiano al fascismo.      
 
Le manganellate sono la via più breve per trasformare l’ordine pubblico nel suo esatto contrario, ma evidentemente è proprio questo che il governo vuole: un disordine che si autoalimenta da affrontare con la repressione, nella convinzione che il dialogo sia sinonimo di debolezza se non di connivenza. Siamo di fronte non a una deriva e neppure ad errori di valutazione di incompetenti, ma alla strategia precisa di una destra identitaria con poca pratica dei valori fondanti della democrazia e assai incline invece all’intolleranza verso il dissenso.
 
Il sistema di sicurezza pubblica, essenziale per la nostra vita quotidiana, richiede altissima competenza, chiarezza di indirizzi e soprattutto di non essere strumentalizzato dalla politica. È ridicolo ridurre una simile questione al semplice schierarsi a favore o contro le forze di polizia, all’espressione di una solidarietà aprioristica, incondizionata e finanche pelosa che finisce per giustificare errori e devianze. Quanti lo fanno sono in cattiva fede e fanno il male di coloro che svolgono seriamente il proprio compito di tutela delle istituzioni nel rispetto dei valori fondanti la Costituzione della Repubblica.  
 
Nell’oscura notte dell’intolleranza strisciante che sembra avvolgere la nostra povera Italia, brillano le parole del Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, estremo baluardo della democrazia e riferimento sempre più insostituibile per i cittadini.
 
Il Presidente della Repubblica ha fatto presente al Ministro dell’Interno, trovandone condivisione, che l’autorevolezza delle Forze dell’Ordine non si misura sui manganelli ma sulla capacità di assicurare sicurezza tutelando, al contempo, la libertà di manifestare pubblicamente opinioni. Con i ragazzi i manganelli esprimono un fallimento”.
 

 

 

Nei giorni scorsi il sindaco di Sezze Lidano Lucidi ha conferito sette incarichi di Elevata Qualificazione, nominando, con decreto, i responsabili dei diversi settori del Comune di Sezze. Previa accettazione, la EQ avrà durata triennale. Per gli Affari Generali e Patrimonio nominata responsabile del Settore I Carla Pasqualucci; per il Settore finanziario e partecipate, nominata responsabile del settore II Laura Marchetti, per lo Sviluppo e gestione del personale, nominata responsabile del Settore III Elisa Perugini; per i Servizi al cittadino e statistiche, nominato responsabile del Settore IV Vincenzo Ferrantelli; per i Servizi al territorio, nominato responsabile del Settore V Antonio Stamegna; per lo sviluppo locale, responsabile del Settore VI Salvatore Molinari e per il Terzo Settore, Settore VII Giovanni Di Trapano.  I funzionari nominati sono stati scelti a seguito di colloqui nei quali è stata "dimostrata l’esperienza lavorativa maturata presso l’ente, la preparazione culturale correlata, le attitudini di carattere individuale, capacità professionali specifiche in relazione allefunzioni spiccatamente gestionali da conferire”.  I funzionari incaricati sono dotati di autonomi poteri decisionali e di spesa.

 

Aleksej Navalny non è morto, è stato assassinato in un carcere per prigionieri ad alto rischio nell’estremo nord della Russia. 
 
Il maglio del potere si è abbattuto sul più coraggioso e noto oppositore di Vladimir Putin, facendogli fare l’unica fine possibile per quanti osano opporsi alla piramide autocratica che governa la Russia. Sebbene da alcuni anni ormai fosse stato di fatto neutralizzato ed avesse un’influenza piuttosto limitata sull’opinione pubblica, Putin ha continuato ad esserne ossessionato ed ha fatto di tutto affinché la sua vita avesse questo epilogo tragico.
 
Un filo nero lega l’oscura stagione degli Zar, gli anni dell’impero comunista ed il nazionalismo contemporaneo: l’assoluta refrattarietà del potere ad accettare qualsiasi forma di dissenso e il sistematico ricorso all’omicidio di Stato come strumento per regolare i conti con gli avversari politici.
 
Aleksej Navalny aveva alle spalle una lunga storia di militanza politica. Si era imposto sulla scena pubblica come esponente del partito liberale Yabloko, che lasciò dopo pochi anni di militanza, disilluso dal dogmatismo e dall’elitarismo della vecchia generazione di liberali russi. L’obiettivo di costruire un’ampia coalizione di opposizione lo portò a flirtare con il nazionalismo post-sovietico. Si schierò a favore dell’attacco russo contro la Georgia del 2008 e dell’invasione della Crimea nel 2014 e definì i migranti e le popolazione caucasiche con epiteti insultanti, chiedendone l’espulsione. Tanto che nel 2021 Amnesty International sollevò dubbi sulla “definizione di Navalny come prigioniero di coscienza a causa di commenti da lui fatti in passato, che possono equivalere a discorsi d’odio che costituiscono istigazione alla discriminazione, alla violenza e all’ostilità”.
 
Nel 2011 lanciò la Fondazione Anti-Corruzione, organizzazione che riuscì a convogliare l’energia delle giovani generazioni, che scesero in strada per protestare contro il ritorno di Putin per il terzo mandato presidenziale. Una simile scelta lo consacrò come il principale e più pericoloso oppositore del regime putiniano.
 
All’inizio a determinare la frattura tra il sistema di potere incarnato da Putin e Aleksej Navalny non fu tanto la diversità di posizioni politico-ideologiche ma il denaro. Le persecuzioni, la violazione dei suoi diritti e delle sue libertà cominciarono quando decise di alzare il velo sulla corruzione dilagante, sulle ruberie, sugli arricchimenti personali, sugli sprechi di risorse pubbliche messe in atto dagli oligarchi del regime. Le sue denunce, puntuali e mai generiche, erano avvalorate da documenti, immagini e riscontri. I risultati delle indagini venivano pubblicati sui siti web del suo gruppo, trasformatosi rapidamente in forza sociale e politica con notevole seguito nel Paese. Progressivamente si spostò su posizioni più liberal, compreso il sì alle unioni gay e negli ultimi anni ha rappresentato l’unica e realistica alternativa al blocco autoritario del Cremlino.
 
La reazione del regime fu inevitabile e il primo atto importante fu l’esclusione di Aleksej Navalny dalle elezioni nel 2018 per vicende giudiziarie piuttosto fumose e di dubbio fondamento. L’obiettivo era distruggere la sua credibilità personale di fronte all’opinione pubblica, indebolirlo sul piano politico e poi eliminarlo. 
 
Dopo essere miracolosamente sopravvissuto all’avvelenamento messo in atto dai servizi speciali russi, in conseguenza del quale fu trasferito in Germania e curato in ospedale a Berlino, al suo ritorno in patria nel 2021 Navalny fu arrestato direttamente in aeroporto. Avrebbe potuto scegliere la strada dell’esilio, ma decise di tornare in patria consapevole che le persecuzioni, giudiziarie e non, nei suoi confronti sarebbero continuate, che la sua vita sarebbe dipesa dalla volontà di Putin e che avrebbe fatto sicuramente la stessa fine dei tanti oppositori politici, eliminati dai sicari del regime.
 
Le basi giuridiche della sua carcerazione erano insensate, i processi solo delle farse. Fu condannato a tre anni di carcere, cui le autorità aggiunsero prima un’ulteriore pena di nove anni e infine una terza di altri diciannove anni. Aleksej Navalny ha trascorso più di 250 giorni, salvo brevi interruzioni, nella cella di punizione, una prigione nella prigione, detenuto in condizioni estremamente difficili che prevedevano tra l’altro il divieto totale di qualsiasi contatto con il mondo esterno. Eppure, fino ai suoi ultimi giorni, ha colto ogni occasione per leggere, scrivere e soprattutto per sollecitare quanti credono nella democrazia a non arrendersi e a lottare per costruire una Russia diversa, rispettosa dei diritti e delle libertà di ogni persona.
 
Aleksej Navalny ha opposto all’autocrazia incarnata dal presidente russo il suo corpo ed è proprio il suo corpo oggi a testimoniare la forza della sua battaglia politica di fronte all’intera nazione. Infatti non è un caso che il suo cadavere venga occultato, venga negata l’autopsia e impedito di fatto ai familiari di dargli una degna sepoltura. Il timore è che la sua tomba possa divenire il simbolo della lotta contro Putin.   Nonostante la repressione, l’apatia e il conformismo dilaganti, l’azione politica portata avanti da Navalny ha rappresentato uno stimolo all’impegno per migliaia di persone ed ha indicato nella partecipazione l’unica vera alternativa al mondo ristretto di interessi privati e di indifferenza in cui il regime di Putin ha spinto la società russa. Tutto questo è stato possibile perché insieme agli slogan liberali, alla richiesta di elezioni giuste e libere e di garanzia dei diritti civili, Aleksej Navalny ha posto sul tavolo della discussione politica il problema dell’enorme disuguaglianza sociale, della povertà della maggioranza e dell’incredibile ricchezza di una piccola minoranza. Insomma non si è limitato a denunciare la corruzione, ma ha puntato il dito contro la natura criminale della ricchezza delle élite politiche ed economiche e ha evidenziato la necessità di realizzare finalmente una democrazia normale per la Russia, con uno stato di diritto, la libertà di parola, una classe media e un mercato socialmente orientato.
 
La morte di Navalny sicuramente non produrrà una mobilitazione di massa in grado di far perdere le elezioni presidenziali a Putin, poiché avviene in un contesto in cui oggi il potere non è contendibile, ma da esponente di spicco di una piccola minoranza e dalle non limpide referenze democratiche, oggi egli è divenuto un simbolo potente contro il putinismo e il regime russo.
 

 

 

Giuseppe Francesco Antonio Maria Gioachino Raimondo Belli (Roma, 7 settembre 1791 – Roma, 21 dicembre 1863) è stato un poeta italiano. Nei suoi 2 279 Sonetti romaneschi, composti in vernacolo romanesco, raccolse la voce del popolo romano del XIX secolo. Nacque a Roma nel 1791 nella famiglia benestante di Luigia Mazio e di Gaudenzio Belli. La famiglia ebbe altri tre figli: Carlo, morto a 18 anni, Flaminia, che nacque nel 1801[1] e si fece suora nel 1827, e Antonio Pietro, nato postumo al padre Gaudenzio e morto ancora in fasce.[1] . Nel 1798 i francesi occuparono Roma e i Belli si rifugiarono a Napoli. Ristabilito il potere pontificio, tornarono a Roma e poi, nel 1800, si stabilirono a Civitavecchia, dove Gaudenzio Belli aveva ottenuto un impiego ben retribuito al porto. Quando morì nel 1802, in un'epidemia di tifo petecchiale,[2] lasciò in gravi difficoltà economiche la famiglia, che tornò a Roma, stabilendosi in via del Corso. [3] La madre si risposò nel 1806, ma morì l'anno dopo, e dei figli si prese cura lo zio paterno, Vincenzo Belli [4]. Giuseppe Gioachino dovette interrompere gli studi per impiegarsi in brevi e mal retribuiti lavori di computista presso i principi Rospigliosi e presso l'Azienda Generale della Reverenda Camera degli Spogli[5], impartendo anche qualche lezione privata. Ottenne salario e alloggio nel 1812 presso il principe Stanislao Poniatowski, ma fu licenziato l'anno dopo per contrasti, si ipotizza, con Cassandra Luci, amante (e, successivamente, moglie) del principe. Intanto il Belli aveva incominciato le prime prove poetiche e letterarie. Nel 1805 aveva scritto le ottave La Campagna, un componimento scolastico sulla bellezza della natura, l'anno dopo una Dissertazione intorno la natura e utilità delle voci, poco più di un sunto del Saggio sull'origine delle conoscenze umane di Condillac, laddove si tratta del linguaggio quale elemento espressivo di mediazione tra la sensazione e il pensiero. Altri suoi scritti su alcuni fenomeni naturali, pur privi di importanza scientifica, danno testimonianza della sua curiosità e del suo spirito di osservazione.

Nel 1807 scrisse le Lamentazioni, poemetto di nove canti in versi sciolti, con atmosfere notturne, la Battaglia celtica, entrambe a imitazione del Cesarotti, allora in gran voga, e La Morte della Morte, del 1810, un poemetto scherzoso in ottave, scritto a imitazione del Berni. Nel 1812 Belli entrò con il nome Tirteo Lacedemonio nell'«Accademia degli Elleni», istituto filo-francese fondato nel 1805. Nel 1813 una scissione portò alla fondazione dell'Accademia tiberina, alla quale passò Belli. La nuova Accademia comprendeva gli oppositori dell'Impero, liberali e clericali, ed ebbe tra i membri Mauro Cappellari, futuro papa Gregorio XVI, e il principe Metternich. Quello fu anche l'anno delle seguenti opere: • poemetto di due canti in terzine, d'imitazione del Monti, Il convito di Baldassare ultimo re degli Assirj, • Il Diluvio universale, • L'Eccidio di Gerusalemme, • La sconfitta de' Madianiti, • Salmi tradotti in versi sciolti, • sonetti dedicati all'amico Francesco Spada. Nel 1815 si volse al teatro e scrisse le farse I finti commedianti e Il tutor pittore, nonché I fratelli alla prova, traduzione di un dramma di Benoît Pelletier-Volméranges.

Nel 1816 pubblicò in terzine La Pestilenza stata in Firenze l'anno di nostra salute MCCCXLVIII e, nel 1817, A Filippo Pistrucci Romano. Il 1818 entrò nell'«Accademia dell'Arcadia» con il nome Linarco Dirceo. Il 12 settembre 1816 il Belli, che aveva appena ottenuto un impiego all'Ufficio del Registro, e Maria Conti (1780-1837), vedova benestante, proprietaria di terre in Umbria, si sposarono e si stabilirono in casa Conti a Palazzo Poli, presso la fontana di Trevi. Nella notte del 12 aprile 1824 nacque il loro primo figlio, Ciro.[6] Libero da assilli economici, il Belli poté iniziare una serie di viaggi che lo portarono a visitare Venezia, Napoli, Firenze e, fondamentale per il suo sviluppo artistico, Milano, che visitò nell'agosto del 1827 - dopo aver dato le dimissioni dal suo impiego statale - e dove si trattenne a lungo, ospite di un amico, l'architetto Giacomo Moraglia. A Milano, dove tornò nel 1828 e nel 1829, conobbe le opere di Carlo Porta e comprese la dignità del dialetto e la forza satirica che il realismo popolare era capace di esprimere. Dell'Accademia Tiberina fu segretario e, dal 1850, presidente. In questa veste fu responsabile della censura artistica e come tale si trovò a vietare le opere di William Shakespeare. Pochi anni dopo, in una lettera indirizzata al principe Placido Gabrielli, datata 15 gennaio 1861, il Belli delineava la sua concezione del romanesco, definendola «favella non di Roma, ma del rozzo e spropositato suo volgo». La lettera faceva seguito alla richiesta, inoltrata su incarico di Luigi Luciano Bonaparte, zio materno del principe, di tradurre in romanesco il Vangelo di Matteo ed è oggi considerata un testo-chiave per comprendere la figura del poeta romano[7] .

Giuseppe Gioachino Belli morì nel 1863, a causa di un colpo apoplettico, e fu sepolto a Roma, al cimitero del Verano. Nel testamento aveva disposto che le sue opere venissero bruciate, ma il figlio non lo fece, consentendo così che fossero conosciute da tutti e per sempre. Il pronipote e artista Guglielmo Janni ne racconterà vita e opere in un opus dattiloscritto di 10 volumi.[8]

I SONETTI ROMANESCHI «Io ho deliberato di lasciare un monumento di quello che oggi è la plebe di Roma. In lei sta certo un tipo di originalità: e la sua lingua, i suoi concetti, l'indole, il costume, gli usi, le pratiche, i lumi, la credenza, i pregiudizi, le superstizioni, tuttociò insomma che la riguarda, ritiene un'impronta che assai per avventura si distingue da qualunque altro carattere di popolo. Né Roma è tale, che la plebe di lei non faccia parte di un gran tutto, di una città cioè di sempre solenne ricordanza.» (Giuseppe Gioachino Belli, introduzione alla raccolta dei sonetti)

«Non casta, non pia talvolta, sebbene devota e superstiziosa, apparirà la materia e la forma: ma il popolo è questo e questo io ricopio.» (Giuseppe Gioachino Belli, introduzione alla raccolta dei sonetti)

«Io qui ritraggo le idee di una plebe ignorante, comunque in gran parte concettosa ed arguta, e le ritraggo, dirò, col concorso di un idiotismo continuo, di una favella tutta guasta e corrotta, di una lingua infine non italiana e neppur romana, ma romanesca.» (Giuseppe Gioachino Belli, introduzione alla raccolta dei sonetti).

L'opera del Belli, principalmente nota per i suoi sonetti, rappresenta con felice sintesi la mentalità dei popolani romani, lo spirito salace, disincantato, furbesco e sempre autocentrico della plebe, come egli la denomina, rendendo con vividezza una costante traduzione in termini ricercatamente incolti delle principali tematiche della quotidianità. L'aspetto ierocratico della Roma dei papi, della Roma del "Papa Re", che incrocia le vicissitudini del popolano nelle ritualità religiose e nelle liturgie giuridiche, nell'immanenza politica come nella sacralizzazione del pratico, è sempre, in ogni verso svolto nell'ottica del vulgus, che sue proprie conclusioni trae secondo quanto di sua percezione. In questo senso è stato discusso se l'opera belliana, come inizialmente accadde, possa ancora toutcourt ascriversi al verismo, che intanto dava migliori prove nella prosa, o se invece non sia il caso di riconsiderarla fra le categorie che, avvicinandosi al picaresco per tematiche e contestualizzazioni, trovano un certo fattore comune nella forma della poesia dialettale italiana.

Da un punto di vista letterario, si tratta della produzione più corposa della poesia dialettale italiana dell'Ottocento, e, in termini linguistici, si tratta di un documento di inestimabile valore sulle mille possibili articolazioni del romanesco, di cui isola un tipo oramai classico, mentre il tempo trascorso ha provveduto a farlo evolvere. A chi vi veda (posizione non maggioritaria) solo un carattere di poesia minore, personalistica, a usi familiari, si contrappone chi vi riconosce il registro storico di una fase culturale popolare, un secolo prima che l'esigenza di catalogare e studiare e, prima ancora, di raccogliere, gli elementi espressivi dei ceti bassi, certamente quelli anche proverbiali, divenisse sentimento diffuso.

Il corpo dei sonetti raggiunge anche un obiettivo non secondario delle opere letterarie, il piacere della lettura, agevolato dalla costante e intrigante trasparenza del personale diletto dell'Autore nella sua estensione. Eppure il realismo è parte del modo narrativo belliano, quantunque non esclusivo. Del realismo Belli fu certo attento osservatore, avendone peraltro selezionato materiale per il suo Zibaldone, ma l'inclinazione verso una satira di sistema, velenosa proporzionalmente alla presunta impossibilità di portare a moralistica "redenzione" i cattivi costumi che punge, sposta la classificabilità verso parametri solo apparentemente più "leggeri", e difatti dell'opera si hanno inquadramenti nelle categorie dell'umorismo, della "cronica", del lazzo e - per estremo - della letteratura scandalistica. Come per altre opere di tutte le letterature, al piacere di degustarne l'arguzia, si è spesso aggiunta la morbosità per la dirompente frequenza di ricorso a termini e locuzioni, o proprio a situazioni tematiche, di drastico scandalo.

Al Belli che di fatto componeva un'opera moralisteggiante, senza limiti e senza rispetto delle inibizioni "morali" della letteratura ufficiale, con l'aggravante di essere egli censore ufficiale per ragioni di pubblica moralità, non si riconobbe se non sottovoce, quasi clandestinamente, valore letterario, almeno sin quando (nella seconda metà del Novecento) la cultura ufficiale non prese atto, restituendolo come nozione, che presso il popolo erano in uso il turpiloquio e la semplificazione in senso materiale delle tematiche riguardanti la religione (il "Timor di Dio"), il pudore sessuale e altri argomenti di pari delicatezza. I sonetti, 2 279 per circa 32 000 versi - più del doppio dei versi della Divina Commedia dantesca -, sono spesso accostati alla proverbialistica poiché nel loro complesso dipingono con ampiezza di dettaglio la filosofia dei Romaneschi del tempo (da non confondersi con i Romani, ai quali il Poeta diceva di appartenere), costituendone impercettibilmente, come dall'Autore stesso dichiarato, "monumento".

Domenica, 18 Febbraio 2024 08:15

Foibe: verità storica e strumentalizzazioni

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La storia del '900 è contrassegnata da orrori e tragedie. Comprenderne le cause e le responsabilità è un dovere etico prima ancora che un'esigenza storica, soprattutto è il presupposto indispensabile per evitare che simili atrocità si ripetano e per costruire una memoria condivisa.
 
Purtroppo il ricordo della tragedia delle foibe ancora oggi è un'occasione per alimentari polemiche inutili, soprattutto da certa parte della politica che per ragioni identitarie, per una ricerca spasmodica di visibilità, per inseguire consensi a buon mercato, anche di fronte a simili orrori, non rinuncia alla faziosità e alle strumentalizzazioni.  
 
Provare empatia e sofferenza per ogni vita barbaramente spezzata è questione d'umanità e prescinde da ogni altra considerazione, ma voler ridurre tutto ad un indistinto, equiparare le vittime delle foibe a quelle del nazifascismo è sbagliato dal punto di vista storico, politico e morale.
 
Quella degli eccidi delle foibe è una storia dai connotati tragici e bisogna ricercarne le radici e le cause. Indiscutibilmente le foibe rappresentano un crimine di guerra. Trucidare nemici inermi, dopo la cattura e senza processo è sempre un atto disumano e insensato, ancor più perché avvenuto alla fine della guerra, quando ci sarebbe stato tempo e modo per accertare i fatti, giudicare e condannare i responsabili dei crimini commessi, come avvenuto a Norimberga. Tuttavia a differenza di quanto viene falsamente ripetuto da certa vulgata poltico-mediatica le vittime delle foibe non state uccise “solo perché italiane”, cioè sulla base di un’appartenenza nazionale. Infatti decine di migliaia di italiani combatterono nelle file dell’esercito partigiano jugoslavo, ovvero dalla parte di chi commise quei crimini, e nessuno di loro ha subito alcuna violenza. Peraltro gli italiani vittime delle forze jugoslave alla fine della guerra hanno rappresentato tra il 3 e il 5% del totale, mentre gli altri sono serbi, croati, sloveni e così via e sono stati trucidati in quanto ritenuti fascisti, nazisti, spie, collaborazionisti o contrari alla conquista del potere da parte delle forze partigiane. Dunque non c’entra l’identità nazionale, ma la scelta di campo, in un’epoca di contrapposizione brutale in cui essere contro la Resistenza equivaleva a parteggiare per il nazismo e il fascismo.
 
I crimini commessi da nazisti sono avvenuti prima delle foibe, hanno portato la guerra, la violenza e l’orrore dei campi di sterminio in tutta Europa. Gli eccidi sono stati condotti contro interi popoli o categorie di persone, a prescindere dall’agire individuale, dalle scelte politiche o militari. L’ideologia nazista prevedeva l’emarginazione, la ghettizzazione e l’eliminazione fisica di omosessuali, disabili, malati psichiatrici, rom, sinti, ebrei ed altri ancora, i quali dovevano morire in quanto tali, dal neonato al novantenne, e non per sbaglio o eccesso di violenza ma per decisione preventiva.
 
Il regime fascista in Italia non portò avanti una coerente politica genocidiaria, ma anche la sua ideologia identificava comportamenti sociali, razze e popoli da emarginare ed eliminare, tanto è vero che incarcerò decine di migliaia di antifascisti, jugoslavi di confine, omosessuali, prostitute, asociali, sinti, rom, perseguitò gli ebrei e inoltre si rese responsabile di numerosi massacri nelle guerre coloniali e d’invasione.
 
Ogni guerra è un crimine e porta con sé violenze che colpiscono anche i civili. Tuttavia un conto è che i morti sono conseguenza indiretta della guerra, come per esempio di un bombardamento contro obiettivi militari o di combattimenti fra eserciti contrapposti, un conto è se un intero popolo o categorie di persone vengono classificate come nemiche e si pianifica scientificamente la loro eliminazione.
 
I partigiani jugoslavi, guidati dall'ideologia comunista, condussero una guerra di liberazione del proprio paese e uccisero avversari politici e militari, anche fuori dal combattimento, perché avevano sposato le ideologie criminali nazista e fascista, si erano resi responsabili di crimini contro il popolo jugoslavo o contro l'umanità, anche se tra le vittime tanti sono stati colpiti erroneamente o per altre motivazioni, pur rappresentando una piccola minoranza.
 
In sostanza siamo di fronte a casistiche storiche completamente differenti in termini di quantità e qualità e diversamente andrebbero considerate dalla stessa politica. Fermo restando che anche solo una vittima è un dramma gravissimo ed inaccettabile ei responsabili devono essere condannati senza appello.
 
In numerosi discorsi istituzionali e soprattutto nella propaganda mediatica le foibe vengono definite da alcune forze politiche come espressione di un disegno di  pulizia etnica , si afferma che le vittime sarebbero state uccise  solo perché italiane  e si arriva a paragonarle alla Shoah. Si tratta di discorsi assurdi, offensivi, umilianti,  negazionisti  o almeno enormemente  riduzionisti  della Shoah e dei crimini commessi dai nazifascisti. Si mente sulle reali motivazioni degli eccidi delle foibe per cercare di nascondere gli orrori commessi dai fascisti, si tenta di dipingere questi ultimi come innocenti, anzi delle vittime dei partigiani, e di far percepire all'opinione pubblica le foibe come un'atrocità addirittura più grave dei crimini nazisti e della stessa Shoah.
 
In questa rappresentazione falsata della verità storica sono evidenti la finalità politica eversiva del sistema democratico, il voler minare le radici antifasciste della nostra Costituzione Repubblicana, il tentativo subdolo di dipingere il fascismo come una ideologia innocente o almeno di considerare nazifascisti e antifascisti ugualmente criminali.
 
Tutto ciò è semplicemente inaccettabile e va respinto con forza. 
 
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