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Aldo Moro e Peppino Impastato. Martiri della democrazia

Mag 07, 2023 Scritto da 
 
 
Il 9 maggio 1978 è una data che ha cambiato la storio dell'Italia.
Quella mattina a Roma, all’interno di una Renault 4 rossa parcheggiata in via Caetani, a metà strada tra Piazza del Gesù, sede nazionale della Dc, e via delle Botteghe Oscure, quartier generale del PCI, venne ritrovato il corpo senza vita di Aldo Moro. Il Presidente della DC era stato rapito in via Fani dalle Brigate Rosse, dopo aver trucidato tutti gli uomini della sua scorta, e tenuto recluso per 55 giorni nella cosiddetta “prigione del popolo”. I brigatisti lo consideravano un nemico in quanto ideatore e artefice della “strategia dell’attenzione” verso il PCI. Attraverso le cosiddette “convergenze parallele” e il “compromesso storico” lo statista democristiano mirava a realizzare una collaborazione politica e di governo fra i grandi partiti popolari d’ispirazione comunista e socialista e cattolico-democratica, finalizzata a dar vita a uno schieramento in grado di portare a termine un programma di profondo risanamento e rinnovamento della società e dello Stato, fondato su un ampio consenso di massa, e a creare le condizioni anche in Italia per la democrazia dell’alternanza al pari di tutti gli altri paesi europei. La piena legittimazione del più grande partito comunista dell’Occidente come forza di governo avrebbe inoltre consentito di contrastare più efficacemente la cosiddetta “strategia della tensione”, un piano sovversivo messo in atto dalle forze più retrive e reazionarie, con la complicità di interi apparati dello Stato, finalizzato a destabilizzare la situazione politica e a influire sul funzionamento delle istituzioni democratiche mediante una serie preordinata di atti terroristici volti a diffondere nei cittadini uno stato di insicurezza e paura, tali da far giustificare, richiedere o auspicare svolte politiche di tipo autoritario e un restringimento degli spazi di libertà e democrazia. A segnalare la presenza del cadavere di Aldo Moro fu una telefonata del brigatista rosso Valerio Morucci.
 
Appena qualche ora prima a Cinisi, nella notte tra l’8 e il 9 maggio, a centinaia di chilometri di distanza da Roma, veniva barbaramente assassinato l’attivista politico e giornalista siciliano Peppino Impastato. Personalità meno conosciuta al grande pubblico, sicuramente di grande spessore politico e culturale, Peppino Impastato era noto nella sua terra per aver rotto con la famiglia di origine, nella quale figuravano anche alcuni mafiosi, e aver scelto di lottare contro le cosche, denunciandone gli affari loschi e le azioni criminali dai microfoni di “Radio Aut”. Dagli studi dell’emittente radiofonica si scagliava, in maniera spesso ironica, contro i clan criminali locali ed in particolare contro il boss Gaetano Badalamenti, da lui ribattezzato “Tano Seduto”. Il corpo di Peppino Impastato, imbottito di tritolo, fu fatto saltare sui binari della linea ferroviaria Palermo-Trapani. Inizialmente stampa, forze dell’ordine e magistratura sostennero che Peppino Impastato stesse architettando un attentato nel quale sarebbe rimasto ucciso e successivamente che si era trattato di un suicidio, arrivando a tale conclusione sulla scorta del ritrovamento di una lettera in casa della zia, che però non conteneva alcun riferimento al proposito di togliersi la vita. In realtà l’omicidio di Peppino Impastato fu commissionato da Cosa Nostra con l’obiettivo di mettere a tacere un uomo scomodo, il quale con le sue continue denunce e il suo impegno politico, prima nel PSIUP e poi in Democrazia Proletaria, era divenuto il più acerrimo nemico della mafia locale.  Solo grazie alla determinazione della madre di Peppino, Felicia (morta nel 2004 a 88 anni), e del fratello Giovanni, è emersa la matrice mafiosa dell’omicidio, sancita nel maggio del 1984 dal Tribunale di Palermo. Tuttavia nel maggio del 1992 i giudici decisero l’archiviazione del caso e soltanto nel 2002, in seguito alla riapertura delle indagini chiesta dal Centro di Documentazione di Palermo, venne istruito un nuovo processo al termine del quale Gaetano Badalamenti è stato condannato all’ergastolo come mandante dell’omicidio di Peppino Impastato.
 
La casualità o il destino hanno voluto che due vite e due tragedie assai diverse tra loro si siano intrecciate nello stesso giorno, unendo in un afflato ideale il Nord e il Sud, la Capitale, simbolo del governo nazionale, e la provincia profonda, l’Italia insanguinata degli Anni di Piombo e della lotta contro la mafia.
 
In un solo giorno, 45 anni fa, il nostro Paese ha perso due figure simbolo della sua Storia, due coraggiosi testimoni dei valori della nostra democrazia per mano di due forze diverse ma in ugual misura bestiali e terrificanti. Ad una analisi superficiale sembrerebbe difficile, anzi impossibile, trovare elementi di analogia e convergenza tra loro. Tuttavia se osserviamo in maniera approfondita, se ci liberiamo dagli stereotipi e concentriamo la nostra attenzione sugli aspetti qualificanti delle loro esistenze, possiamo constatare che entrambi hanno rappresentato la parte giusta dell’umanità, hanno incarnato, ognuno ovviamente con le proprie peculiarità ideali e culturali, i principi della nostra Costituzione, dando voce e rappresentanza alla parte migliore dell’Italia, quella non corrotta, non malata di nichilismo, non ossessionata dalla ricerca del potere fine a se stesso e non compromessa con il cancro mafioso, mali assoluti da combattere e debellare ad ogni costo.
 
Aldo Moro fu assassinato per la scelleratezza di un sistema malato e terroristico. L’obiettivo dei brigatisti e delle forze oscure che li hanno manovrati e usati era coartare la libertà insindacabile di ognuno di fare politica, impedire la piena affermazione dei diritti personali e sociali e fermare il processo di democratizzazione dell’Italia, eliminando uno statista lungimirante e costruttore di futuro.
 
Peppino Impastato, un uomo che ha combattuto con coraggio e a mani nude il cancro mafioso che da troppi anni affligge intere regioni del nostro paese, fu messo a tacere perché rivendicava il diritto di parlare e protestare contro le ingiustizie, impegnandosi concretamente per una società di eguali, libera e giusta. La speranza dei mafiosi che potesse aggiungersi ai tanti morti di mafia, i cui responsabili sono rimasti impuniti non si è realizzata, anche se hanno proseguito i loro turpi traffici giovandosi delle collusioni e delle complicità della politica e degli apparati dello Stato.
 
Dopo 45 anni siamo vicini a conoscere la verità, ma ancora lontani dall’ottenere giustizia. Non possiamo arrenderci e dobbiamo continuare a lottare affinché sia fatta piena luce. 
Pubblicato in Riflessioni

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