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Domenica, 05 Aprile 2020 06:48

La memoria dispersa

 

 

 

 

 

Noi siamo storie che si intrecciano, sguardi che si incontrano, mani che si uniscono, sentimenti che si fondono, saggezze condivise, compagni di viaggio che camminano fianco a fianco e si inerpicano lungo i tornanti a volte aspri e gravosi della vita sorreggendosi l’un l’altro. Purtroppo sopraggiunge il tempo della separazione. Il distacco è sempre doloroso, ci segna profondamente sia se frutto di una scelta, di un abbandono per inseguire altri destini, cercare asilo in altri affetti, amicizie e relazioni, sia se conseguente al fluire del tempo, al consumarsi naturale ed inevitabile della vita o all’impensabile di una perdita inattesa e incomprensibile. È la nostra umanità, bellissima e fragile.

Nella nostra cultura la morte è divenuta un tabù, considerata talmente sconveniente da essere nascosta e taciuta, rimossa sul piano individuale e sociale, bandita dalle coscienze e dal linguaggio, anche se di contro nei media, nel cinema, nei videogiochi è ipervisibile, traboccano immagini e discorsi legati alla morte, è spettacolarizzata, scenografica, teatrale al punto di apparire qualcosa di patetico e irreale, impiegata per produrre scariche di adrenalina e commuovere il pubblico, trasformata in un antidodo e un passatempo contro la noia generale dell’esistenza.

Gli accadimenti che ci stanno investendo con la potenza di uno tsunami ci sollecitano a mettere da parte inquietudini e straniamenti, a non cedere alla tentazione di stordirci e non pensare, di sottrarci alla sgradevolezza della realtà cercando rifugio e conforto nell’illusorio e nell’inconsistente e ci obbligano a misurarci con l’esperienza dura e traumatica della sofferenza, del dolore e della morte, che hanno assunto dimensioni e caratteri collettivi e lasceranno cicatrici permanenti nelle nostre esistenze, a prescindere se il virus ci ha toccato o ci toccherà personalmente o negli affetti.              

Il ragionieristico snocciolare i dati nell’incontro della Protezione Civile e degli esperti sanitari con i giornalisti in diretta televisiva, che ritma queste nostre giornate di isolamento, necessario per spiegare la dimensione della tragedia in cui siamo immersi, inevitabilmente genera la sensazione di una riduzione a fredda contabilità numerica di malati e morti, anche se parole e accenti sono sempre misurati, attenti e mai sminuenti soprattutto la gravità della perdita di vite umane, prevalentemente riguardanti quanti si trovano ad aver compiuto un considerevole tragitto esistenziale e del concorso di patologie pregresse e gravi nel determinare l’esito funesto.

Non c’è nulla di consolatorio nel fatto che i decessi riguardino maggiormente persone anziane o comunque vulnerabili perché, al di là del fatto che tale assunto neanche è del tutto veritiero, in questo combattimento contro il virus potremo uscirne vincitori o vinti unicamente tutti insieme. Infatti se perdiamo i giovani perdiamo speranza e forza per costruire il domani, se perdiamo gli anziani perdiamo la memoria di ciò che siamo stati, l’esperienza che ci ha consentito di toccare i traguardi di cultura, sviluppo e benessere che ci appartengono, la saggezza di chi ha vissuto già tanto.

L’esistenza umana è scandita da stagioni, tappe necessarie, passaggi preziosi che costruiscono e modellano la nostra identità: infanzia, giovinezza, maturità, vecchiaia.

La nostra società, dominata dalla logica dell’efficienza e del profitto, il più delle volte non considera la vecchiaia come un dono da apprezzare e valorizzare, ma come un peso e un costo. Gli anziani sono improduttivi e sono percepiti come persone aventi scarsa rilevanza sociale, insignificanti e da loro non si è interessati ad ascoltare ed apprendere nulla. La longevità è invece una benedizione perché la sapienza del vivere di cui sono portatori i vecchi è un tesoro inestimabile. La vecchiaia non è la stagione che avvicina e conduce alla morte, ma il tempo necessario a dare compimento alla vita, consentendo di comprenderla e leggerla integralmente e di scoprire veramente se stessi. Le rughe che segnano il volto sono memoria scolpita nella carne viva della fatica e dell’impegno profuso, della gioia e del dolore vissuti nel dipanarsi dei giorni. La vecchiaia è il tempo dell’amore, inteso non più come passione erotica travolgente, ma come profondità di sentimenti capaci di svelare strade sempre nuove e inaspettate per sconfiggere il cinismo, continuare a stupirsi di fronte alla bellezza, evitare lo spegnersi di gratuità e disinteresse, consentire che a primeggiare sia la vita e l’essere sull’avere. Gli anziani sono una riserva vitale e dicono infinitamente tanto anche con i loro silenzi, possono aiutarci a guidare nella notte a fari spenti, perché conoscono le insidie nascoste, le curve pericolose dove è meglio rallentare, moderare l’andatura e i rettilinei sui quali procedere di slancio, dato che quelle strade che noi andiamo sperimentando le hanno già affrontate.

Questa maledetta pandemia, specialmente in diverse parti del nostro Paese, ci sta defraudando di legami ed affetti dei nostri genitori e nonni, dell’anima profonda e della memoria di cui sono testimoni, sta inaridendo e tagliando le radici che ci rendono saldi di fronte alle avversità e ci nutrono con la linfa della saggezza, relegandoci in una solitudine generazionale senza precedenti. Nel chiuso dei reparti asettici e sterili degli ospedali, dove il silenzio è rotto solo dal sibilo sottile dei respiratori e dalle parole di conforto di tanti medici e infermieri instancabili e valorosi, rivestiti con tute, camici, mascherine e visiere per proteggersi dal virus, se ne sta andando irrimediabilmente una parte di noi.

Quando tutto questo sarà finito e avremo sconfitto il virus ci scopriremo più poveri non solo economicamente ma soprattutto umanamente.

Pubblicato in Riflessioni