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Domenica, 13 Dicembre 2020 07:47

Ciao Pablito!

 

 

 

Ci sono nel calcio dei momenti che sono esclusivamente poetici: si tratta dei momenti dei goal. Ogni goal è sempre un’invenzione, è sempre una sovversione del codice: ogni goal è ineluttabilità, folgorazione, stupore, irreversibilità. Proprio come la parola poetica. Il capocannoniere del campionato è sempre il miglior poeta dell’anno. Il calcio che esprime più goal è il calcio più poetico”. (Pier Paolo Pasolini)

Il calcio è un amore strano, ma è amore.

L’amore ha sembianze differenti, lo comprendiamo solo facendogli spazio, assaporandolo nella concretezza del suo imprevedibile manifestarsi, nel suo intrecciarsi intimamente e indissolubilmente con le nostre vite, si declina anche nel rincorrere una palla in un rettangolo erboso di gioco.

Il calcio è passione che ti afferra e ti imprigiona, ti fa ardere di desiderio, è gioco e appartenenza, genio e talento, tecnica e impegno, sacrifico e lealtà. Solo in apparenza è semplicemente correre dietro una palla. Quella palla ricercata, inseguita, sottratta all’avversario e calciata racconta l’essenza della vita, intessuta dei sogni più audaci, delle aspettative più forti e delle emozioni più sentite. Se poi a quella palla riesci a dare il calcio giusto, a infilarla nella porta avversaria portando la tua squadra alla vittoria, ti sembra di spiccare il volo, di viaggiare lontano, assai più lontano di quanto tu abbia mai potuto immaginare, di raggiungere traguardi che ti riempiono di ebbrezza inesprimibile. 

Il calcio è uno degli sport più completi, impegna dal punto di vista tecnico, atletico e tattico, richiede energie e intelligenza, il sapersi disporre in campo nel posto giusto e muovere anche senza il possesso della palla, la capacità di indovinare il momento per difendere o attaccare, la perspicacia di accorgersi dei pericoli o dei punti deboli dell’avversario, la prontezza a predisporre le contromisure per arginarne e annullarne le strategie di gioco. Il fascino del calcio è il suo essere una sfida non solo tra le due squadre avversarie, ma anche tra i singoli giocatori e, a ben vedere, con sé stessi, con le proprie forze e i propri limiti, con la fortuna e il destino, finanche con gli stessi compagni di squadra per assicurarsi la migliore prestazione. Forza fisica e vigore atletico sono essenziali, ma nulla valgono senza intelligenza, creatività, fantasia, acume tattico, slancio generoso, correttezza nel riconoscere valore e dignità dell’avversario, più forte o più debole poco importa.

Il calcio insegna l’importanza dell’essere squadra, del reciproco sostegno, dello stare e convivere con gli altri, riserva gioie grandi, come la vittoria in campionato o in coppa magari segnando il gol decisivo, o più semplici e apparentemente marginali come i progressi in allenamento e i frutti del lavoro svolto con passione e intensità. Spesso però ci riserva emozioni negative, brucianti e dure, come una prestazione pessima, sbagliare un rigore decisivo, perdere una partita fondamentale. L’importante è non lasciarsi abbattere dalla sconfitta, imparare a misurarsi con le contrarietà, ripartire dagli errori, coltivare il senso del limite considerandolo uno stimolo a fare di più e meglio, a superare se stessi con coraggio e determinazione, a faticare e penare, sorridere e gioire, ossia a vivere la profonda duplicità della vita.

L’amore per il calcio può sbocciare in ogni momento, ma solitamente accade da piccoli, quando guardando le meraviglie sul campo dei campioni che giocano nella squadra del cuore, scatta la scintilla, esplode il desiderio irresistibile di emularne le imprese, di provare a diventare come loro o più semplicemente lasciandoti travolgere dalla passione e ritrovandoti i a tifare sugli spalti dello stadio o davanti allo schermo del televisore, in preda all’adrenalina e alla tensione.

Ricordo bene l’estate del 1982. Ero un adolescente che si affacciava alla vita con il cuore in subbuglio e la testa piena di sogni. La nazionale di Enzo Bearzot arrivò al mondiale di Spagna accompagnata da critiche e perplessità, non ultimo per la convocazione di Paolo Rossi, il quale aveva finito da qualche mese di scontare la squalifica di due anni inflittagli per lo scandalo del calcio scommesse (rispetto al quale ha sempre rivendicato la propria estraneità e innocenza). Tutti erano convinti che la squadra avrebbe fatto poca strada. L’inizio stentato sembrò confermare il timore: tre pareggi scialbi e la qualificazione arrivata grazie ai ripescaggi. Paolo Rossi era il centravanti e giocò male le tre partite iniziali. Nei bar e nei conciliaboli dei tifosi ci si domandava perché il CT insistesse nello schierarlo. Enzo Bearzot tirò dritto. La squadra si trasferì a Barcellona per la seconda fase e qui avvenne la sua metamorfosi e con essa quella di Paolo Rossi. Pablito esplose e divenne il simbolo della nazionale. Rifilò tre gol al Brasile, due alla Polonia, uno alla Germania in finale e così conquistò il titolo di capocannoniere del torneo e per l’Italia il terzo titolo di campione del mondo. In quel magnifico 1982 vinse anche il Pallone d’Oro.

Paolo Rossi era un centravanti da area di rigore con un innato senso del gol: piccolo, agile, sgusciante, un ragazzo umile e perbene, senza tanti grilli per la testa. Nulla a che vedere con i giocatori palestrati e sempre sulla copertina dei rotocalchi del calcio odierno. Toscano di Prato, esplose nel Vicenza, passò al Perugia, alla Juventus, al Milan e, ancora giovane a causa della fragilità fisica, chiuse la carriera al Verona. Tuttavia se penso a lui non riesco ad associarlo a nessuna squadra di club, lo vedo con indosso unicamente la maglia azzurra e lo immagino la sera dell’11 luglio 1982 appoggiato a un cartellone pubblicitario del Bernabeu di Madrid. Lo stadio è una bolgia, un mare di bandiere, un’onda che lambisce il serpen­te azzurro che si snoda intorno al cam­po, guidato da una figura divenuta mitologica: metà Zoff, metà coppa del Mondo. Paolo Rossi non c’è. Dopo aver concluso il giro d’onore si ferma a contemplare quella baraonda e si scopre triste. Pablito racconta: “Guardavo la folla, i compagni e dentro sentivo un fondo di amarezza. - Adesso dovete fermare il tempo, adesso -, mi dicevo - Non avrei più vissuto un momento del gene­re. Mai più in tutta la mia vita. E me lo sentivo scivolare via. Ecco: era già fini­to”.

No Paolo, non è finito affatto. A 64 anni, nel cuore della notte, la morte ti ha strappato all’affetto della tua famiglia e di tutte le persone che ti hanno ammirato ed amato, ma ha reso eterno quel sogno che ci hai fatto vivere.

Pubblicato in Riflessioni