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28 maggio 1976.
 
È primavera inoltrata, La giornata è calda e assolata.
 
In città la tensione è palpabile, la si coglie dagli sguardi e dai discorsi delle persone. Il comizio di Sandro Saccucci, noto per le sue posizioni estremiste, per essere stato accusato di aver partecipato al tentato colpo di stato, il cosiddetto Golpe Borghese, parlamentare uscente del Movimento Sociale, partito di raccolta dei nostalgici del fascismo, è vissuto dalla grande maggioranza dei cittadini come una provocazione, una sfida verso una comunità dalla forte identità antifascista e di sinistra. Il Partito Comunista è fortemente radicato e raccoglie ampi consensi, tanto che Sezze è conosciuta come la Stalingrado dei Monti Lepini.
 
Sandro Saccucci e i camerati che lo accompagnano sono consapevoli della situazione politica di Sezze e anche degli altri comuni dei Monti Lepini. L’intento è chiaro e non ha nulla a che vedere con l’inviolabile diritto democratico di tenere iniziative politiche e comizi elettorali in qualunque città o paese, senza limiti o impedimenti.  
 
Quanto accadde quella sera in Piazza IV Novembre, le proteste dei gruppi di sinistra, il lancio di bottiglie e bastoni da parte dei fascisti, i colpi di pistola verso la folla dei contestatori esplosi da Sandro Saccucci, presentatosi armato ad una iniziativa politica in spregio a quanto stabilito dalla Costituzione e dalle leggi, il terrore scatenato per le vie del centro storico insieme agli squadristi che lo accompagnavano, allontanandosi armi in pugno e sparando a destra e a manca, guidati da un agente del SID, i servizi segreti militari, originario di Sezze, e l’epilogo tragico con il ferimento di Antonio Spirito e l’omicidio di Luigi Di Rosa a Ferro di Cavallo non avevano nulla di casuale, se non l’identità delle vittime. Tutto era stato pianificato, fin nei dettagli, nel corso di una cena in un noto ristorante di Aprilia. In quella occasione almeno uno dei camerati presenti aveva tirato fuori la pistola spavaldamente e fatto esplicito riferimento alla possibilità di usarla in caso di contestazioni.
 
Si trattò di un raid terroristico. Le indagini, carenti per quanto attiene l’esatta attribuzione delle responsabilità dei personaggi coinvolti, almeno su un punto fanno giustizia, forniscono una ricostruzione abbastanza obiettiva dell’accaduto, non smentibile da versioni fantasiose e di comodo, a più riprese circolate negli anni, prive di riscontri e aventi l’unica finalità di avvelenare il clima, ingenerare confusione e giustificare l’azione squadrista e omicida. A sparare furono i fascisti, è certo.
 
Il clamore mediatico fu enorme.
 
Il giorno dei funerali l’intera città di Sezze si strinse intorno alla famiglia e vi fu la partecipazione di numerosi esponenti delle forze politiche democratiche nazionali.
 
Mani criminali, nei mesi successivi al raid sanguinario, fecero saltare con una bomba il monumento eretto sul luogo dell’omicidio di Luigi Di Rosa dall’Amministrazione Comunale e la sua tomba venne profanata.
 
La macchina della giustizia si mise in moto, ma l’approdo risultò assai lontano dalle aspettative: troppe le coperture di cui beneficiarono le persone coinvolte, gli interessi tutelati, i fatti da non far emergere per timore che potessero destabilizzare un sistema di potere consolidato. Nei primi due gradi di giudizio Sandro Saccucci fu condannato per concorso morale nell’omicidio di Luigi Di Rosa e nel ferimento di Antonio Spirito, oltre che per altri reati minori, unitamente a Pietro Allatta, riconosciuto come l’autore materiale, e agli altri componenti del gruppo dei fascisti. Tuttavia la Corte di Cassazione assolse Sandro Saccucci per il reato di concorso morale e lo riconobbe colpevole solo di alcuni reati minori, nel frattempo prescritti.
 
Il mancato riconoscimento di Luigi Di Rosa come vittima del terrorismo ha completato il quadro, confermando il totale fallimento dello Stato, banalizzando una morte insensata e il dolore della famiglia e di una intera comunità.
 
Ho del 28 maggio 1976, dei giorni e dei mesi seguenti ricordi sparsi. Le immagini di quegli avvenimenti affiorano nella mia mente a volte nitide ed altre invece sfocate e indefinite. Sono le memorie di un bambino. Non ho certezza se la mia vita e quella di Luigi Di Rosa si siano mai incrociate, troppo grande la differenza di età, lui un uomo e io un bambino, ma mi piace pensare che possa essere accaduto, non fosse altro per aver abitato le stesse strade. Tuttavia poco importa. Fin da subito mi sono avvicinato alla sua tragedia. Il dolore immane della madre e la tenacia appassionata della sorella, a cui mi lega un intenso rapporto personale, sono diventati miei e non mi stancherò di lottare perché la memoria di quanto accaduto a Luigi Di Rosa non vada perduta e anzi diventi lievito per la crescita civile e democratica di Sezze.
 
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