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“Luigi De Angelis ha colto la pienezza della realtà divina nascosta nelle Parabole, rendendo, attraverso tali racconti, la realtà celeste più vicina alla terra, suggerendo la vera modalità di fede a cui l’uomo è chiamato: la preghiera. Sì, la vera risposta dell’uomo alla cura paziente di Dio e alla presenza reale della Sua Grazia feconda, è l’atteggiamento di ringraziamento, apertura, accoglienza, anelito, preghiera, appunto, che rende noi creature riposanti sulla mano grande del Creatore, che ama ancora ricrearci, ogni giorno”. Padre Ugo Vanni conclude così la prefazione al quarto libro scritto dal setino Luigi De Angelis “Il Regno di Dio: pienezza che si dispiega. Meditare e pregare le parabole del Regno”, edito nel settembre scorso da Porto Seguro, casa editrice fiorentina. L’autore, avvocato di professione, nella sua ultima fatica letteraria, attraverso le parabole, ripercorre “lo svelamento del volto di Dio in Gesù” dando la possibilità al lettore “di poter vivere collaborando al dispiegarsi del Regno di Dio”. E' lo stesso De Angelis, nella sua introduzione, che ci indica il cammino di lettura, un cammino fatto di amore e passione: “Le parabole sono racconti metaforici, il cui significato scaturisce dall’accostamento paradossale di due orizzonti diversi, dalla messa in relazione di un fatto preso dalla vita quotidiana, appartenente alla specificità delle persone o facente parte degli eventi naturali, con l’accadere del Regno. Nell’esposizione Gesù non segue schemi predefiniti, ma è mosso dalla passione smisurata per il Padre, dall’amore inesauribile per l’umanità, dal bisogno urgente di rivelarci il volto dell’Onnipotente, di associarci al mistero del Regno che in lui e attraverso di lui si svela e si compie. Il linguaggio simbolico utilizzato è fortemente intrinseco alla sua persona, al suo essere consustanziale con Dio, attento al contesto particolare, allo stato d’animo e alla condizione personale di quanti l’ascoltano, di ognuno di noi, rispetta con condiscendenza e tenerezza la nostra autonomia e si adegua al nostro passo, alla nostra fatica a capire”. Il libro verrà presentato quando le condizioni lo permetteranno.

Pubblicato in Eventi Culturali
Lunedì, 28 Ottobre 2019 08:50

Italiani emigranti. Ieri come oggi

 

 

Negli ultimi 13 anni, dal 2006 al 2019, il numero degli italiani che se ne sono andati all'estero è aumentato del 70%: sono passati da poco più di 3 milioni a quasi 5 milioni e mezzo. In maggioranza giovani e laureati. Si tratta di un esodo che ha interessato tutte le Regioni ma in particolare il Meridione. Da sempre, statisticamente, gli italiani sono sempre stati al primo posto tra le popolazioni migranti dell'Europa. Chi non ricorda quanti giovani compaesani, negli anni Settanta, sono andati a lavorare in Germania? Questi dati sono forniti dalla Fondazione Europea Migrantes. Oggi la mèta più ambita è la Gran Bretagna. A breve, però, con la Brexit per chi si è trasferito e intende trasferirsi in Inghilterra le cose potrebbero cambiare in peggio. "Brutti, sporchi e cattivi", fino a qualche anno fa erano questi i pregiudizi e gli stereotipi che accompagnavano i nostri connazionali. Una avversione quasi connaturata nell'animo umano, a difesa della propria identità e del proprio suolo. Oggi, per fortuna, in seguito alla globalizzazione, le cose stanno cambiando. Generalmente l'emigrante gode del rispetto e degli stessi diritti degli altri cittadini. I motivi dell'emigrazione sono i più disparati e non è qui il caso di entrare nel merito della complessa vicenda, ma principalmente è la ricerca di un lavoro e di una sistemazione più certa e sicura che spinge i giovani ad andare via.. Purtuttavia, l'uomo, fin dalla comparsa sulla terra, è stato migrante. Eppure, nonostante ciò, oggi viviamo sotto la sindrome dell'assedio dello straniero. In Italia principalmente, si avverte paura e insicurezza, a fronte dei flussi migratori provenienti dall'Africa e dai Paesi del Medio Oriente. C'è voglia di legalità e di protezione. Bene. E' giusto e sacrosanto. Bisogna evitare di passare dai porti chiusi all'accoglienza indiscriminata di tutti. Occorre rigore, responsabilità e umanità: massima attenzione ai controlli e carcere duro per i trafficanti e gli scafisti della morte. Non si può più prescindere,poi,  da una equa ridistribuzione dei migranti tra tutti gli Stati membri dell'Europa. E' necessaria una politica modulata su più livelli, basata non più sull'emergenza ma che affronti la questione nel suo complesso, perseguendo la lotta al traffico illegale di persone e attraverso una lotta senza quartiere  contro l'immigrazione clandestina, rimpatriando in tempi celeri chi non ha diritto a restare. Affrontando, infine, in maniera efficace il tema dell'integrazione per coloro che hanno diritto a restare. Ben altra cosa sono i porti chiusi e la costruzione di muri e di barriere, che peraltro, in mare, sono impossibili. Mi domando: se anche verso i nostri connazionali  alzassero muri e fili spinati?

Pubblicato in La Terza Pagina
Domenica, 13 Ottobre 2019 08:25

Sì allo ius culturae

 

Bisogna avere più coraggio. Sono mature le condizioni per dare la cittadinanza ai bambini cresciuti in Italia. Si fa così in moltissimi Paesi Europei."Chi nasce qui, è di qui", ripete l'on. Laura Boldrini, firmataria della proposta di legge. Lo ius culturae, cioè il diritto alla cittadinanza basato sull'istruzione e sulla cultura, afferma che chi è nato in Italia e ha terminato almeno un ciclo di studi, ne ha diritto. Tale legge consentirebbe l'iscrizione all'anagrafe dello Stato di circa  800 mila  nuovi italiani subito e altri 50 mila ogni anno. Si tratta di bambini preadolescenti immigrati, nati o arrivati in Italia entro i 12 anni ma esclusi dai diritti e doveri di ogni altro cittadino. A chi possono far paura questi bambini? A scuola cantano l'Inno d'Italia, sono orgogliosi del tricolore e della Costituzione. Sono compagni dei nostri figli e nipoti, giocano nei vicoli del nostro paese. La proposta di legge prevede che avranno un pò prima  quello che comunque otterranno appena compiuti 18 anni. Non il sangue (ius sanguinis), non il suolo (ius soli), ma l'istruzione e la cultura (ius culturae) e cioè  la capacità di comunicare,  di relazionarsi, di convivere, di rispettare regole condivise, di partecipare alla vita sociale ed economica. Si tratta di un più elevato e consapevole principio di cittadinanza. I fautori del no collegano questo principio al problema della sicurezza. A parte che le statistiche dicono che gli immigrati regolari non delinquono più dei nativi italiani. Ma poi: che paura possono fare questi bambini se, come i loro coetanei, vengono educati al rispetto e alla tolleranza? L'interculturalità è lo strumento più importante per assicurare la convivenza civile e pacifica tra culture diverse. Grazie ad essa ciò che è diverso non ci fa paura perché lo conosciamo. E ciò comporta, inevitabilmente, la diminuzione della violenza verso e da parte dello straniero. L'interculturalità sarà, in futuro, l'unico percorso praticabile per gettare le basi per una convivenza tra culture diverse. La sicurezza si conquista confrontandosi con stili di vita e di pensiero differenti. Non ci possiamo permettere, in questo momento, di chiudere gli occhi e guardare indietro. La globalizzazione ci pone di fronte a problemi inediti e drammatici, ma possiamo governarla e farne un'occasione di maggior crescita e maggiore umanità. Inoltre, in un periodo di forte calo demografico come quello che da anni stiamo vivendo in Italia, non è sicuramente un male la presenza di bambini e bambine. Lo sanno bene le maestre di scuola materna ed elementare. Lo sanno bene gli insegnanti di scuola media. "SI', dunque, alla cultura dell'integrazione, NO alla cultura dello scarto!"(Papa Francesco).

Pubblicato in La Terza Pagina