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Franco Abbenda

Franco Abbenda

Martedì, 31 Marzo 2020 07:23

Piero e Ninetta... la guerra di Piero

 

 

 

 

 

 

 

La canzone fu pubblicata in 45 giri nel 1964 da un quasi esordiente giovane ventiquattrenne genovese, poi inserita anche nel suo primo 33 giri  del 1966 (Tutto Fabrizio De André).

Per contestualizzare il momento, si pensi che il Festival di Sanremo di quell’anno lo vinse Gigliola Cinguetti con “Non ho l’età”, mentre “Una lacrima sul viso” di Bobby Solo e “In ginocchio da te” di Gianni Morandi risultarono i dischi più venduti dell’anno.

Già da allora in direzione ostinata e contraria, i testi delle canzoni di Fabrizio De André furono da subito percepiti dai giovani come una novità assoluta nel mercato musicale, controcorrente sia per composizione musicale che per argomenti prescelti.

De André non raccontava, come era allora di moda, dei primi sdolcinati innamoramenti o della fine strappalacrime di incontri estivi. Quasi sempre andava al di là delle solite narrazioni, proponendo storie dal sapore diverso, più reali e più intime. I suoi personaggi sembravano usciti dai libri di storia, ma non eroi piuttosto gente normale impegnata a vivere quasi sempre problematiche di stampo più sociale e collettivo, in questo caso specifico l’esperienza reale della guerra.

Quegli anni 60 erano iniziati con la paura di un possibile nuovo conflitto mondiale a seguito della cosiddetta Guerra fredda giunta all’apice tra USA e URSS nel 1961 con la crisi dei missili a Cuba di Fidel Castro, con J.F. Kennedy e Kruscev a minacciare azioni belliche. Nel 1963 l’enciclica PACEM IN TERRIS di Papa Giovanni XXIII, aveva riproposto al centro dell’attenzione mondiale le possibili azioni alternative alla dialettica di guerra tra le nazioni forti e a favore di una pregiudiziale pacifista degli incontri diplomatici.

Fabrizio, accanito lettore di tutto, dal suo punto di anarchico vista si trovò a riflettere sul perché delle guerre e in particolare sulle storie umane di chi quei conflitti li subiva, quasi sempre appartenente alle classi meno abbienti, con immani ricadute sociali e umane drammatiche.

E allora scrisse una delle canzoni più accorate del suo repertorio, che all’epoca fece molto scalpore nell’Italia dove non era previsto il diritto all’obiezione di coscienza per il servizio militare e che nel 1965 si dividerà sulle parole profetiche di Don Lorenzo Milani pubblicate su Rinascita con il titolo “L’obbedienza non è più una virtù”. Parole chiare e dure in risposta a un appello dei cappellani militari contro l’obiezione, in cui il priore di Barbiana scrisse parole illuminate sul valore sociale e patriottico della non-obbedienza agli ordini militari, spesso ritenuti ordini legittimi dal soldato anche durante la dominanza nazista.

Questa stessa canzone oggi è a pieno titolo inserita nelle antologie di letteratura italiana ad uso scolastico, tra i grandi autori nazionali, suonata e cantata anche dai più giovani.

Ecco Piero, un giovane soldato (di nazionalità indefinita, un soldato…) impegnato come fante al fronte in cui si combattevano sanguinose battaglie, che improvvisamente si scopre stanco di vedere cadaveri di soldati nei torrenti e di combattere un nemico temuto, mai visto in faccia.

Arriva una voce interiore che mette in dubbio la sua certezza di soldato e lo prega di tornare indietro perché spesso ai soldati ubbidienti spetta solo una tomba con una croce, come premio. Ma Piero non ascolta e, per dovere ed amor di Patria, va avanti superando monti e valli fino a quando si trova di fronte un soldato nemico in carne ed ossa. E la meraviglia lo assale nel vedere quest’uomo, sì nemico, ma che in realtà gli assomiglia nei connotati e nella sua stessa identica paura di combattere e morire, di diverso ha solo la divisa, simile ma di diverso colore.

A questo punto la stessa voce interiore, più concitata, gli suggerisce di sparare subito, per uccidere l’altro e salvare la propria pelle. Ma Piero tentenna, si perde nei suoi dubbi e viene bloccato dalla paura di dover vedere per la prima volta gli occhi di un uomo che muore, e non spara. Sarà un tempo di riflessione che gli costerà caro, perché l’altro si gira, impaurito a sua volta, lo vede, lo riconosce come nemico e subito spara, lui sì velocemente e senza i dubbi di Piero.

Così Piero muore sul colpo, portandosi dietro le sue domande universali sui mille perché della guerra, sulla difficoltà per alcuni di uccidere altri uomini.

Sì, perché le guerre di una volta erano combattute solo dagli uomini.

A piangere invece sarà una donna (come spesso accade ancora oggi, sono loro le altre vittime sopravvissute ai conflitti:), rimasta a casa con figli e gli anziani di casa: Ninetta. Toccherà a lei aspettare invano il ritorno del suo amato Piero e, perduta ormai ogni speranza, a piangerlo disperata, immaginandolo sepolto solitario in montagna ma trasfigurando la sua tomba senza lapide aggraziata da mille poetici papaveri rossi.

 

 

 

Qualche giorno fa, proprio il 23 marzo, ha compiuto 75 anni uno dei cantautori italiani più controversi, non amatissimo dal grande pubblico e difficilmente inquadrabile in uno stile, un genere prefigurato: Franco Battiato.

Siciliano di nascita, Battiato nella sua lunga carriera artistica ha pubblicato circa 30 album - oltre a diversi “live” e qualche raccolta di successi - passando dal rock progressive all’avanguardia pura, dalla musica etnica alla canzone d’autore.

È stato inoltre compositore, pittore, regista e anche assessore al turismo della Regione Sicilia nella giunta Crocetta, solo per 5 mesi. Il suo long playing più conosciuto forse rimane ancora La voce del padrone del 1981 (Bandiera bianca, Cuccurucucù, Centro di gravità permanente ecc.), primo 33 giri a superare la soglia del milione di copie vendute in Italia.

Ma c’è una canzone delle sue che in questi giorni di quarantena e di speciale afflato protettivo verso i nostri cari è tornata ad essere ascoltata e le cui frasi sono citatissime sui social.

LA CURA, inserita nell’album L’imboscata (1996) e scritta insieme a Manlio Sgalambro, è considerata una delle canzoni d’autore italiane più ascoltate ed apprezzate di sempre, insieme a quelle dei cantautori storici più apprezzati.

Ma cos’ha di particolare, di così accattivante questa vera e propria lirica di fine secolo?

È una canzone intima, sussurrata, quasi come se fosse una lettera scritta ad una persona cara. Una specie di rivelazione d’amore in cui l’io narrante, al termine di ogni ritornello, ribadisce un impegno duraturo con il suo amato: “…perché sei un essere speciale ed io avrò cura di te”.

Mi è capitato spesso di ascoltare questa splendida canzone come dedica di uno sposo alla sposa, o viceversa, in occasioni di feste di matrimonio o di ricorrenze speciali in cui si vuol rifondare l’amore di coppia, magari cantandola al karaoke dopo un brindisi festoso.

Ma parla davvero di amore tra due esseri umani questa canzone? Alcuni dicono di sì o così la vogliono leggere. “Ti solleverò dai dolori e dai tuoi sbalzi d’umore, dalle ossessioni delle tue manie. Supererò le correnti gravitazionali, lo spazio e la luce per non farti invecchiare”.

Sembrerebbe davvero una classica dichiarazione d’amore. C’è chi però ha voluto attribuire un altro significato al testo, un po’ più alto e spirituale seppur sempre d’amore, tenendo conto anche che il co-autore Sgalambro è conosciuto come filosofo.

Ecco allora altre due ipotesi. Una vorrebbe che il testo sia un’invocazione accorata della parte spirituale della persona, quella ritenuta più alta, rivolta alla componente materiale, più terrena e mortale.  “Ti proteggerò dalle paure delle ipocondrie, dai turbamenti che da oggi incontrerai per la tua via. Dalle ingiustizie e dagli inganni del tuo tempo, dai fallimenti che per tua natura normalmente attirerai”. Sarebbe la coscienza,  l’anima della nostra personalità a dichiarare il suo costante impegno a proteggere l’altra metà, quella che spesso si lascia illudere dalle apparenze materiali, illusa dai sensi e dal voler inseguire sogni vacui per poi cadere in delusioni da cui è difficile rialzarsi.  

Un’altra ipotesi è invece più teologica. Sarebbe Dio stesso, il creatore del mondo e padre dell’umanità, a indirizzare quelle splendide parole a chi – persona - si trova a vivere momenti tempestosi, magari lutti, abbandoni o crisi spirituale, quasi a volerlo invitare alla meditazione, ad innalzare il proprio orizzonte, fino a stendere su di lui un’ala protettrice. “Ti porterò soprattutto il silenzio e la pazienza. Percorreremo assieme le vie che portano all’essenza”; “Conosco le leggi del mondo, e te ne farò dono. Supererò le correnti gravitazionali, lo spazio e la luce per non farti invecchiare”.

Non sembrano queste le frasi rivolte da Dio ai Profeti dell’Antico Testamento?

Queste sono solo impressioni personali, scaturite da un ascolto ripetuto e meditato del testo di questa canzone ammaliante, ma qual è la versione originale che ne hanno dato gli autori? Non lo so, forse non è nemmeno importante saperlo. Una volta che l’opera d’arte è completata e regalata al pubblico dall’autore, ognuno può farsi un’opinione personale, magari ripensandola ogni tanto alla luce del percorso artistico del cantante in questione e degli argomenti trattati in altre sue canzoni (cfr. E ti vengo a cercare).

Non rimane che ascoltarla e decidere quale delle tre ipotesi sia più verosimile e vicina alle nostre vite. O magari aggiungerne un’altra completamente nuova.

P.S. Questo mio testo, rivisto e integrato rispetto ad una precedente versione già pubblicata nel 2018, è dedicato all’amico Alessandro Mattei. Io e lui sappiamo perché.

 

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