
Franco Abbenda
Le parole sono importanti
Questa che segue vuole essere una riflessione personale esclusivamente sull’uso del linguaggio che in questi ultimi giorni ha riempito i nostri canali social, scatenati in seguito agli ultimi avvenimenti per i brutti fatti del cimitero e che hanno portato poi alla crisi amministrativa e alle dimissioni del Sindaco Di Raimo.
“Chi parla male, pensa male e vive male. Bisogna trovare le parole giuste: le parole sono importanti!”. Così Michele Apicella (Nanni Moretti) nel film Palombella Rossa (1989) rispondeva alla giornalista a bordo piscina, riprendendola di brutto per l’uso decisamente approssimativo e sgarbato di alcune forme linguistiche espresse in italiano. Ognuno di noi, quando decide di intervenire pubblicamente in un dibattito pubblico, in questo caso solo virtuale, dovrebbe avere sempre l’obiettivo di essere il più chiaro possibile e di usare parole cristalline, senza troppi giri di parole fumose e senza essere troppo offensivo delle posizioni o diritti altrui, usando al meglio la lingua italiana e la tempestività della comunicazione.
Per sintesi, ne è scaturita una pagella, un po’ semiseria (non sparate al tastierista da strapazzo), con tanto di voti che lasciano il tempo che trovano.
Per ulteriore chiarezza, non voglio con questo esprimere giudizi di merito sulle indagini, né sulla prassi amministrativa o sulle prese di posizione politiche dei diversi attori scesi in campo; è solo una riflessione sui diversi stili comunicativi, sulle parole più o meno controllate che sono state usate e per provare a non pensare alla drammaticità di altre parole, quelle scolpite nei provvedimenti della Procura della Repubblica.
- I commenti social incivili:
Leggendo i commenti alle notizie in questione condivise su Facebook dai locali giornali online o singoli cittadini, ci si imbatte troppo spesso in parole (non più di 4 o 5) in un italiano sgrammaticato e con epiteti irripetibili, offese personali dirette a destra e manca, quasi sempre oltre i limiti della decenza pubblica. Come se si fosse aperta la gara a chi la spara più grossa, senza controllo e filtro alcuno, anche da parte di persone che solitamente non commentano mai e non postano alcunché, leoni da tastiera per un giorno a rischio vero di querele della controparte offesa. Torna alla mente la frase di Umberto Eco: "I social network sono un fenomeno positivo ma danno diritto di parola anche a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Ora questi imbecilli hanno lo stesso diritto di parola dei Premi Nobel". Tutti hanno il diritto di commentare ed intervenire in un dibattito che si è aperto per questi fatti di Sezze, ma lo si faccia con decenza e riflettendo bene prima di scrivere, magari articolando meglio il pensiero con le giuste parole e senza pensare di essere immuni da peccati, ricordando che in quella gogna pubblica potremmo finirci tutti prima o poi. Voto 0 (zero)
- I comunicati di associazioni varie:
Diverse associazioni setine non hanno perso l’occasione per battere un colpo ed intervenire nel dibattito con interventi perlopiù ben scritti e composti, anche con riferimenti dotti e alti. Alcune di queste, più politicizzate, hanno approfittato per togliersi vecchi sassolini dalle scarpe e aprire in largo anticipo la campagna elettorale verso Palazzo De Magistris; altre associazioni con critiche inappuntabili su quanto accaduto tendono a sottolineare come la perdita dei valori etici della politica rappresenti una piaga costante della vita sociale e politica; altre ancora, solitamente afone, impegnate in un continuo letargico soliloquio nel proprio enclave, che invitano la cittadinanza alla riscoperta del valore della legalità pubblica, mentre in altre recenti occasioni in cui lo stesso alto valore della legalità era stato parimenti minacciato, si erano distinte per l’assenza, distratte o in conflitto intimo: Voto 4 (la media tra 6, 4 e 2).
- I quotidiani online
In genere hanno riportato le notizie nude e crude, quasi sempre asetticamente, senza commenti di redazione o riflessioni più approfondite sui dettagli più personali o sulla politica. Hanno dato spazio a tutti coloro che hanno avuto da dire sulla vicenda – anche persone singole senza organizzazioni strutturate alle spalle – quasi sempre virgolettando i comunicati ed evitando di scrivere corsivi dai toni giustizialisti. Qualche direttore più navigato, rifugiandosi nell’alveo del terreno favorito, ha preferito cavalcare lo stile ironico della satira, tra dialetto e citazioni di canzone d’autore. Un plauso sincero, in altri tempi pre-social saremmo stati tutti in attesa delle voci di corridoio o del quotidiano in edicola del giorno dopo, invece siamo stati aggiornati praticamente in tempo reale, come succede durante le crisi del Governo nazionale (sono mancate le dirette video, ma in tempo di Covid ci possiamo accontentare) Voto 7+.
- I comunicati dei gruppi consiliari e dei singoli consiglieri
Un po’ in ritardo rispetto ai tempi rapidi della comunicazione moderna e alle attese dei cittadini, sono arrivati anche i comunicati dei consiglieri comunali (non tutti a dire il vero). Sono stati scritti con calma a tavolino, riflettendo e pesando le parole, a tratti eleganti e senza traccia di rabbia, sono percepiti dal lettore medio quasi tutti simili però: un po’ a scusarsi di non aver saputo vigilare l’incresciosa situazione, poi a ricordare i princìpi ispiratori della propria illuminata azione e infine a rivendicare gli sforzi profusi, i successi e i risultati amministrativi ottenuti (?!?!). Tutti d’accordo (o quasi) nel ritenere ormai chiusa l’esperienza amministrativa iniziata nel 2017 con l’elezione del Sindaco Di Raimo (ringraziato, come dovere istituzionale da tutti). Una annotazione critica e cattivella: queste lettere pubbliche risultano confezionate con uno stile ed una chiarezza comunicativa molto ben superiore alla qualità media degli interventi in aula, quelli declamati a voce durante le sedute pubbliche del Consiglio comunale, spesso difficili da capire, disordinati, infarciti di frasi fatte in politichese, battute e cadute di stile fuori luogo. Voto 6.
- Comunicati degli Assessori, vice Sindaco escluso.
Non pervenuti, d’habitude… S.V.
- Comunicato del partito del Sindaco
Chi lo ha visto? Nonostante le molte penne in servizio permanente effettivo, ben avvezze a comunicare e commentare sui social con costanza bulgara anche il minimo spostamento d’aria dalle parti della Pisana, non risulta finora pervenuto alcun commento ufficiale scritto; solo voci di corridoio e tanti si dice. Voto: N.V.
- Comunicati del Sindaco
Tre (o quattro, cinque) in tutto: il primo neutro, di prassi, senza anima, subito dopo gli arresti dichiarando di essere come Autorità a disposizione della magistratura (e vorrei vedere…). Il secondo, tardivo e improprio, arrivato solo per comunicare non le sue ma le dimissioni del vice Sindaco; poi quello in cui era annunciata la volontà di dimettersi, invitando anche tutti i consiglieri a fare altrettanto: insolito nella sostanza oltre che nella forma, troppo sibillina per un Sindaco nel guado di un passaggio cruciale (dimissioni sì o no?). Tanto che subito dopo, quando tutto il paese parlava ormai di dimissioni del Sindaco come un dato assodato, c’è stato bisogno di una precisazione, non equivalendo sostanzialmente la prima lettera a vere e proprie dimissioni. Infine, con l’aumento del numero delle dimissioni ufficializzate dai singoli consiglieri, la lettera di dimissioni vera e propria, una resa incondizionata, con il linguaggio povero e freddo degli armistizi di guerra. In questo ultimo atto – ancora sub judice per 20 giorni - non si è percepita la stessa forza espressiva usata verbalmente in altri momenti della sua azione politica amministrativa, quando era sembrato un retore di altri tempi in difesa di un’operazione non andata poi a buon fine: Voto: 5, aumentato per il ruolo istituzionale rivestito.
- L’orologio della piazza
Profilo anonimo Facebook, diventato col tempo una vera e propria spina nel fianco dell’Amministrazione Di Raimo – a volte con toni e modalità espressive riprovevoli ai limiti dell’offesa personale – ha percorso costantemente il sentiero della critica irriverente più feroce - un po’ come le vignette di Charlie Hebdo – presentando video-animazioni artigianali di famose scene cinematografiche (quasi sempre di autori e pellicole ben scelte) riadattandole al contesto politico attuale e ai relativi protagonisti. In questi ultimi giorni ha regalato piccoli gioielli minori che hanno fatto sorridere un po’ il pubblico dei social, molto meno i diretti interessati spesso indignati e furibondi per l’anonimato dietro cui si nascondono gli autori. Sulla scia dello slogan sessantottesco “La fantasia distruggerà il potere ed una risata vi seppellirà!”, questa profilo ha rappresentato, comunque la si pensi, una novità assoluta per coerenza di stile e sintesi comunicativa: Voto 8.
P.S.
6 bis – Comunicato del Partito del Sindaco, circolo di Sezze, segretario provinciale e segretario regionale.
Nel pomeriggio del 24 marzo, dopo che questo articolo era stato inviato per la pubblicazione il giorno successivo, è arrivato (siglato con 3 firme) il tanto atteso comunicato del partito che impone un’appendice a quanto già scritto. Nel lungo comunicato si evidenzia che nessun esponente né amministratore del partito sia coinvolto nelle indagini in corso. La linea sembra quella di sempre in casi di inchieste di questo tipo: non cercate i colpevoli tra di noi. Poi i ringraziamenti di rito per lavoro, impegno e sensibilità al Sindaco uscente, ai loro assessori, al Presidente del Consiglio comunale, alle loro consigliere e ai loro consiglieri che pur non essendo in alcun modo coinvolti nelle indagini (repetita iuvant) hanno responsabilmente rimesso il loro mandato istituzionale. Poi anche un plauso di sfuggita agli altri consiglieri di maggioranza che hanno sostenuto sempre (o quasi) la giunta setina, senza nessun accenno all’assessore coinvolto nelle indagini che per 4 anni è stato il vice sindaco, unico sempre presente in giunta insieme a Di Raimo dal 2017. Passano gli anni, i giorni e se li conti anche i minuti ma lo stile sembra quello già letto e sentito altrove, sì c’è stato qualche problema ma ripartiamo più forti e coesi che pria, Sezze ha bisogno della nostra presenza. Francamente non aggiunge nulla se non una difesa di parte, autocritica di facciata e sembra scritto rimirando il proprio ombelico, più che guardando alla Comunità e prospettando un’alternativa diversa.
Voto: insufficiente.
Finale
Merito anch’io un voto basso – datelo voi -, non ce l’ho fatta a far finta di niente, non riesco a perdere il vizio di dire sempre e comunque la mia dall’alto della sicumera che mi rimproverano anche i miei amici più cari: Excusez-moi, si vous pouvez.
Dove eravamo rimasti?
Penso, dove eravamo rimasti prima che scoppiasse tutto questo finimondo?
A febbraio del 2020, il 20 per la precisione! Era un giovedì grasso e avevo preso un giorno di ferie per gustarmi la tradizionale sfilata nel centro storico del corteo per il matrimonio di Peppalacchio, avrei voluto scattare belle foto con la mia nuova Nikon.
Fu una bellissima mattinata di sole a Piazza De Magistris, con i bambini delle scuole mascherati da carnevale - numerosi, elettrici e vocianti - ed Umberto “Farza” sul palco a intrattenerli con il rito/mito del matrimonio più pazzo che c’è, quello che a Sezze dura appena 6 giorni, fino al rogo del Martedì grasso.
Dalla Cina arrivavano intanto notizie di un virus misterioso (chissà perché le brutte malattie contagiose sono partite sempre da quelle parti) e immagini televisive incredibili di ospedali da campo allestiti in fretta e furia a Wuhan, città praticamente deserta e in quarantena nonostante i suoi 11 milioni di abitanti. Ma la Cina è lontana, dall’altra parte della luna, non arriverà certo in Italia…
E poi? Poi c’era un evento che stavo aspettando con una certa curiosità: la prima all’Auditorium Costa del nuovo lavoro teatrale allestito dalla Compagnia teatrale Le Colonne e programmata per la sera del 29 febbraio (bisesto), di sabato. Eh sì, diversi mesi prima Giancarlo Loffarelli mi aveva permesso di leggere in anteprima le bozze del suo ultimo originale lavoro di scrittura per teatro, Caravaggio perduto, dedicato al grande pittore del seicento italiano.
“In questo testo, Caravaggio è contumace, come lo fu nella vita. Contumaci sono anche i suoi dipinti. Né l’uno né gli altri sono mai in scena. Dell’uno e degli altri si parla. Essi cadono fuori dalla scena. Ciò che in scena ac-cade è la macchina del teatro, che fu sintesi di ogni arte barocca. E la macchina teatrale non viene nascosta, bensì mostrata” (Dalle note per la messinscena).
Da vedere assolutamente come avrebbero reso in pratica quel testo.
Con l’amico Giancarlo, regista e attore con suoi fedelissimi storici compagni di palco della Compagnia teatrale Le Colonne, era capitato più volte di parlare di Caravaggio e delle sue inconfondibili opere pittoriche, tra le quali quelle più riuscite e rinomate di scene sacre rivisitate, sempre sospese tra vita reale della Roma del seicento e la scenografia innovativa, quasi un allestimento teatrale ante litteram nei quadri realizzati per essere ospitati nelle cappelle private di nobili e porporati della Curia. Con al centro la questione delle luci e del buio, del suo marchio di fabbrica direi, del focus originale di Caravaggio che prima di dipingere anneriva completamente la tela per poi tirar fuori i personaggi, illuminati sapientemente secondo la scena rappresentata.
E prima dell’esordio, la mia raccomandazione a non sbagliare i dettagli, soprattutto le luci di scena - per me quasi più importanti delle parole recitate in questo caso - con le giuste prospettive laterali, senza mai illuminare a giorno e frontalmente gli attori in scena. E le sue rassicurazioni certe, aveva già studiato per bene ogni dettaglio con i suoi collaboratori tecnici e lo scenografo, attenzione ai costumi e alle musiche (originali); ci sarebbe stata una rappresentazione in matinée per gli alunni delle scuole superiori, un po’ anche per testare e ottimizzare il tutto prima della première del sabato serale. Un perfetto gioco di squadra, una macchina organizzativa in piena attività, tutti pronti alla sfida del palco e del pubblico reale, ben disposti all’eterno gioco del vero ma falso.
Io mi ero proposto per scattare le fotografie, rigorosamente senza flash e posizionando la camera lateralmente alla scena, per cogliere al meglio l’effetto delle luci a cristallizzare i volti degli attori, contrapposti con gli oggetti e gli abiti di scena, tra ombre e luci.
Siamo rimasti lì, la Compagnia Le Colonne a rinviare gli spettacoli per le intervenute disposizioni di salute pubblica, a interrompere un lavoro di mesi e una programmazione accurata, io ancora alle prese con il dove posizionarmi, a quale impostazione dare alla Nikon, quali ISO scegliere e se privilegiare le priorità di diaframma o di tempo, per non sbagliare nulla e regalare qualche bella foto ricordo per l’occasione.
Poi sappiamo com’è andata, per gli spettacoli. Quasi esclusivamente solo eventi online, vecchie registrazioni riproposte e qualche diretta streaming per provare a movimentare le nostre sere di clausura casalinga, senza mai regalarci però il sapore del teatro o dei concerti veri, on stage.
Ora siamo tornati a febbraio, ma del 2021. È passato un anno che ci ha resi tutti più deboli e impauriti dalla pandemia; sappiamo che il virus non ha regalato una semplice influenza ma tanta sofferenza, giornate d’ospedale, tamponi, paure e tanta morte, anche di persone a noi care, oltre ad una crisi sociale ed economica in cui siamo ancora immersi. E non è ancora finita, nonostante i vaccini che iniziano a difenderci.
Non vedo l’ora di ripartire da lì, dal Costa, finalmente con Caravaggio e gli attori delle Colonne in scena, il pubblico numeroso in sala, magari tutti ancora con la mascherina per precauzione, ma finalmente liberati dall’angoscia da Covid19. Tre, due, uno…via!
Non vedo l’ora di scattare finalmente quelle foto, anche a costo di sbagliarle, e di regalarne almeno una poi orgogliosamente a Giancarlo, come segno di ripartenza da quel momento interrotto, non per dimenticare quello che è stato ma per riattivarci e ripartire pian piano con le nostre passioni più care.
Quando tutto questo potrà mai succedere? Chi può mai saperlo…
Che quel momento, simbolicamente, dopo la lunga notte attraversata, possa essere un momento di ripartenza e di luce per tutta Sezze, con l’auspicio che la rinascita possa essere per tutti, individuale e collettiva, umana e culturale.
Lo spero vivamente, che possa succedere al più presto.
Un Natale difficile ma possibile
Il Natale che ci apprestiamo a vivere non sarà come i precedenti, per nessuno di noi.
Cinquantamila morti italiani, una decina a Sezze, non ci consentono di viverlo come sempre.
Non sarà il solito Natale per chi non potrà trascorrerlo con i propri cari, quei genitori o nonni che sono stati portati via da un virus venuto da lontano e che è ancora tra di noi.
Non lo sarà per chi è ricoverato in ospedale, alle prese con una fame d’ossigeno che medici ed infermieri cercano di combattere e curare con ogni mezzo a disposizione.
Non lo sarà neanche per le famiglie costrette in quarantena a casa, con uno o più dei componenti ad aspettare la negativizzazione del tampone.
Non lo sarà per chi non potrà raggiungere la propria famiglia di origine che vive altrove, come da tradizione di fine anno.
Non lo sarà per coloro che, a causa degli effetti del distanziamento sociale della pandemia, hanno perso il lavoro e molto di quello che avevano ed ora stanno vivendo sulla propria pelle una negatività che rischia di sfociare nella disperazione.
Non lo sarà neanche per i pazienti cronici sofferenti di altre patologie e che non riusciranno a svolgere i previsti controlli in ospedale, che adesso sono quasi tutti ora trasformati in bunker dedicati al Covid19.
Inutile negarlo, nessuno si sarebbe aspettato all’inizio del 2020 di vivere un Natale così strano, con tanto pessimismo nell’aria.
Come avviene per altri giorni-memoria dell’anno, le ricorrenze di avvenimenti più o meno importanti o evocativi, anche di respiro più laico e istituzionale (per es. il 25 Aprile ed il 2 Giugno), il significato di una festa assume le più diverse coloriture e percezioni soggettive, a seconda di molteplici fattori in gioco.
Per Natale è più o meno lo stesso.
C’è infatti chi aspetta la ricorrenza del Natale, chi il cenone della vigilia di N., chi il regalo di N., chi il presepe e chi l’albero di N., chi gli auguri di N., chi il messaggino di buon N., chi il faccione di Babbo N., chi la recita di N. e chi le vacanze di N e chi, infine, non vede l’ora di assaporare la liturgia di Natale.
Nel pieno del vortice di questo autunno da seconda ondata pandemica che ci sta cambiando le vite tra normative nazionali, regionali e comunali che a fatica cerchiamo di rispettare, pazientemente segnati da mascherine sempre indossate e igienizzanti a portata di mano, ora si sta parlando di anticipare la Messa di Mezzanotte.
Nel primo duro periodo di lockdown, la Chiesa italiana, venendo incontro alle esigenze sanitarie imposte dal Governo al Paese, ha chiuso le chiese per due mesi, non consentendo la presenza dei fedeli alle celebrazioni delle liturgie presiedute solo dai sacerdoti. Anche i funerali sono stati vietati…
Le chiese sono state riaperte poi a maggio con la prima discesa del numero dei contagiati, a patto di introdurre rigide regole di comportamento tra i banchi, sulla base di programmi condivisi tra Governo e CEI.
Allora ci furono voci stonate di veterocattolici e presunti liberi pensatori laici che parlarono addirittura di attentato mortifero alla libertà di culto, quella sancita dalla Costituzione. Si alzò poi alta e chiara la voce di Papa Francesco per mettere a tacere le polemiche e ricordare a tutti come la Chiesa è parte integrante della Comunità, non altra e privilegiata rispetto alle esigenze cautelative sociali, e che il buio del periodo Coronavirus sarebbe stata un’occasione di meditazione e di prova anche per la Chiesa e i cattolici.
Anche si sentono voci sguaiate scandalizzarsi alla sola ipotesi di dover anticipare la tradizionale liturgia della Messa di mezzanotte al tardo pomeriggio o alle prime ore della sera. Le stesse chiese che sono sempre meno frequentate in Italia nelle domeniche normali, quelle che riempiono di persone solo per festività, liturgie funebri o di Prima Comunione, diventano nuovamente occasione irrinunciabile per le voci sguaiate dei paladini delle tradizioni non riempite di sostanza e si torna a parlare di attentato alla libertà religiosa.
Fortunatamente, anche in questi giorni si alzano chiare e nette le parole di qualche illuminato comunicatore che prova a rimettere i puntini sulle i. Padre Antonio Spadaro, teologo gesuita attuale direttore di Civiltà Cattolica, con un articolo pubblicato su Il Fatto Quotidiano lo scorso 1 dicembre, ci aiuta a fare un po’ di discernimento nei difficili tempi che stiamo vivendo, in cui le voci che urlano sembrano aver sempre ragione.
Ne ripropongo di seguito qualche passaggio, sperando possa essere d’aiuto a quanti vogliono andare alla sostanza del Natale, magari per prepararsi a viverlo nel migliore dei modi.
<I Vangeli di Matteo e Luca non forniscono indicazioni cronologiche precise. L’affermarsi della festa nel giorno del 25 dicembre la si deve molto all’opera del Papa San Leone Magno (440-461). In nessun modo la Chiesa ha mai definito questo punto, lasciando che il giorno del Natale di Gesù si consolidasse come semplice tradizione. Nel 1993 San Giovanni Paolo II, durante l’udienza di preparazione del natale disse, ad esempio: “La data del 25 dicembre, com’è noto, è convenzionale”>.
<Un documento attesta che già nel 354 si celebrava a Roma la festa cristiana del natale celebrata il 25 dicembre. Essa corrisponde alla celebrazione pagana del solstizio d’inverno Natalis solis invicti cioè la nascita del nuovo sole dopo la notte più lunga dell’anno. Questa è la data nella quale viene celebrata la nascita di Colui che è il Sole vero che sorge dalla notte del paganesimo>.
<Nella notte di Natale ci invita a fare l’esperienza spirituale dell’entrare nell’oscurità per ammirare e adorare il manifestarsi della vera Luce, quella del verbo di Dio che incarnandosi ha illuminato la Storia>
<Il dato simbolicamente importante per la celebrazione della notte non è dunque l’orario esatto – che sia mezzanotte o altri orari – ma il fatto che si celebri quando è buio e non c’è luce>.
<Veniamo a noi: certamente la politica non deve parlare di come si celebra la liturgia di Natale. E certamente la Chiesa deve evitare che le celebrazioni diventino luoghi di contagio. Le indicazioni circa il modo in cui le celebrazioni debbono svolgersi nel luoghi di culto sono solo un esempio di delle restrizioni di vasta portata all’esercizio di molti diritti umani e libertà civili in tutto il mondo, causate dallo sforzo per far sì che la distanza fisica prevenga efficacemente le infezioni>.
<Non c’è da sollevare da parte alcuna polemiche pretestuose su temi così delicati che toccano sia il bene comune e la salute dei cittadini sia alcuni valori spirituali che fondano la coesione sociale>.
Un’ultima mia riflessione, partendo dalla lettura di queste parole chiare di Padre Spadaro: se potessimo approfittare di questo periodo di Avvento, buio e oscuro come mai prima a causa del Covid, per provare a guardarci dentro - io per primo - e a chiederci che posto occupa nelle nostre vite il Cristo bambino che si appresta a ri-nascere (lo stesso che poi ri-morirà in croce per poi ri-risorgere tre giorni dopo), a prescindere dall’orario della Messa in cui decideremo di partecipare, saremmo già in cammino.
Magari, più compiutamente, ri-avvicinandoci ai Sacramenti il nostro Natale sarebbe davvero “diverso” perché più intimo e sentito così da poter diventare occasione di “bene” verso gli altri, i più sofferenti e poveri delle nostre società, rinunciando a qualche regalo sfarzoso ma spesso inutile e destinare a questi sfortunati fratelli/concittadini/stranieri le nostre doverose opere di carità natalizie.
Letter to You, Franco Abbenda scrive a "The Boss"
Una lettera per te oggi la scrivo io, mio caro amico Bruce.
È già da qualche settimana che ascolto e riascolto il video musicale di Letter to you, il brano portante del tuo ultimo album che uscirà oggi 22 ottobre 2020, con lo stesso titolo, in tutto il mondo. Lo acquisterò e lo ascolterò tutto attentamente, te lo prometto, intanto ti racconto qualche mia impressione su questo ennesimo piccolo gioiello.
Mi presento: in questi ultimi 40 anni, nonostante io sia nato e cresciuto dall’altra parte del tuo mondo, non troppo lontano da quel Vico Equense da cui partirono i tuoi avi Zerilli e Sorrentino nel secolo scorso, non ci crederai ma tu sei stato una presenza costante nella mia vita. Ho atteso l’uscita dei tuoi album come si aspetta il ritorno di un amico, il proprio compleanno o la nascita di un neonato in famiglia. Sono stato anche spettatore di 6 tuoi concerti live in Italia, ho visto molte tue performance in DVD, ho apprezzato la tenerezza di Springsteen and I, mi sono gustato le numerose interviste e i più recenti live trasmessi in tv, anche la serie Springsteen on Broadway su Netflix, ed ho letto una ventina di libri a te dedicati, oltre alla tua autobiografia Born to run, uscita nel 2016.
Una volta, solo una volta, ho osato cantare in pubblico la tua Dead man waling durante un evento pubblico organizzato a sostegno di un condannato a morte negli USA.
Le tue canzoni hanno accompagnato tutta la mia crescita, fin da adolescente le ho sempre ascoltate avidamente, cercando di tuffarmi nel tuo personalissimo sound e capire bene il significato dei tuoi testi. E poi riprendere ancora le canzoni, anche quelle più vecchie, quasi da studioso, per cogliere tutte le tessiture musicali dei tuoi amici della E Street Band e a scovare altre chiavi di lettura e tutti i riferimenti dei tuoi versi, anche i più nascosti fino a farli sedimentare dentro di me. Anche adesso, a 58 anni compiuti, ti ascolto sempre, non posso fare a meno delle tue vecchie canzoni e aspetto con ansia ogni tua nuova mossa, anche quelle scritte con profondo senso civico durante le vigilie elettorali da Hard times negli States. Non è successo solo con te, sia chiaro, ho altri “amici” autori musicali, soprattutto italiani, che non ho perso mai di vista e che sono stati - e lo sono ancora – i punti di riferimento costanti, i fari da non perdere nella navigazione della vita. Conosci Fabrizio De André?
Mi hai emozionato anche stavolta con Letter to you, hai colto nel segno col tuo sguardo sempre affilato e attento alle cose semplici ed importanti della vita. Dopo anni di dischi e di esibizioni in millanta concerti in giro per il mondo in cui hai invitato i giovani a guardare senza paura il buio della notte e incoraggiandoli affinché inseguissero i propri sogni, qualunque tipo di sogno, perché siamo tutti nati per correre in un altrove più roseo, dopo averci presentato i tuoi normalissimi ed umanissimi eroi just for one day alle prese col vortice della difficile quotidianità ma senza abbandonare mai la speranza, dopo averci invitati a salire a bordo del treno che ci porta verso un luogo migliore in cui aspettare fiduciosi altre serene ed assolate giornate, da un po’ di tempo hai iniziato a cambiare prospettiva e volgere lo sguardo anche altrove, sarà il tempo che passa...
Anche tu sei cambiato in questi anni, si vede anche dai tuoi capelli sempre più radi, stai invecchiando, càpita (non a tutti) nella vita caro vecchio amico fragile, così ti sei raccontato con molta onestà e franchezza nella tua autobiografia. Ti volti indietro sempre più spesso e prendi atto drammaticamente che molti dei tuoi amici di gioventù, tra cui alcuni dei tuoi cari e fraterni musicisti, non sono più lì con te a condividere musica e vita negli studi di registrazione e durante le tournée in giro per il mondo.
E allora scrivi lettere, lettere musicali che hanno il colore dolce/amaro di un’intimità fraterna ormai perduta, lo fai con un calore che arriva a riscaldare anche i nostri cuori di blood brothers.
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“Neath a crowd of mongrel trees, I pulled that bothersome thread got down on my knees, grabbed my pen and bowed my head, tried to summon all that my heart finds true. And send it in my letter to you”
(Sotto un folto intreccio di alberi ho tirato via quel filo fastidioso e mi sono inginocchiato, ho preso la penna e ho chinato la testa, ho cercato di evocare tutto ciò che il mio cuore trova vero. E inviarlo nella mia lettera per te).
Sei da solo anche tu in questi momenti, non c’è più Clarance a sorreggerti come nella foto copertina più famosa di sempre, sei faccia a faccia con le assenze che non avresti mai voluto percepire. Anche Danny è volato via a suonare le sue tastiere altrove…due pietre miliari della prima E Street band. Una lettera per molti.
“Things I found out through hard times and good I wrote 'em all out in ink and blood, dug deep in my soul. And signed my name true. And sent it in my letter to you”
(Cose che ho trovato attraverso i tempi difficili e i buoni, le ho scritte tutte con inchiostro e sangue, ho scavato nel profondo della mia anima. E ho firmato col mio nome vero. E l’ho inviato nella mia lettera per te).
Tempi difficili e buoni, come càpitano a tutti noi, ti capiamo Bruce. E quando le persone che vorremmo avere accanto ci mancano da toglierci l’aria, allora scriviamo lettere, per lo più immaginarie. Tu Bruce le scrivi poeticamente in musica, con sangue e inchiostro, e le firmi col nome vero, quello da uomo in carne ed ossa più che da personaggio di copertina.
“I took all the sunshine and rain, all my happiness and all my pain, the dark evening stars and the morning sky of blue And I sent it in my letter to you”.
(Ho preso tutto il sole e la pioggia, tutta la mia felicità e tutto il mio dolore, le stelle della sera oscura e il cielo blu del mattino. E le ho inviate nella mia lettera per te).
“In my letter to you I took all my fears and doubts, in my letter to you all the hard things I found out. In my letter to you all that I found true and I sent it in my letter to you”.
(Nella mia lettera per te ho preso tutte le mie paure e dubbi, nella mia lettera per te tutte le cose difficili che ho trovato. Nella mia lettera per te tutto quello che ho scoperto di vero e l’ho inviato nella mia lettera per te).
Chi di noi non ha un amico ormai andato a cui scriverebbe volentieri una lettera affettuosa?
Tutti capiamo intimamente di cosa ci vuoi parlare con Letter to you, lo abbiamo provato sulla nostra pelle il tuo stesso sentimento, l’affetto verso qualcuno che non vedremo più camminare al nostro fianco.
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Adesso ti sei messo davvero a nudo, Bruce. Tutte le esperienze di vita terrena, buone o meno buone, quelle che alcuni dei tuoi cari non possono più provare sulla loro pelle, quelle che adesso sei costretto a vivere nonostante la loro mancanza, padre, amico, fratello o altro, tu le raccogli in una splendida lettera-canzone e la invii a loro come segno di empatia e di affetto eterno. Come a dire: “Carissimo amico, qui il mondo va come sempre: alti e bassi, mari agitati e voli spettacolari…manchi solo tu”.
Qualcuno potrebbe storcere il naso e dire di non amare particolarmente questa tua vena malinconica del 2019 (l’album è stato inciso a novembre 2019), questo indulgere in sentimenti da autunno della vita, ma basterebbe guardare bene nei tuoi dischi, mettere da parte (solo per un attimo, per carità) i tuoi grandi successi festosi e ottimistici ed ecco affiorare un po’ ovunque germogli seminati qua e là diretti all’anima, dritti al cuore più intimo di ognuno di noi ascoltatori. Se provassimo a riascoltare attentamente Jungleland, Racing in the street, The ghost of Tom Joad, You’re missing, New York city serenade, I’m going down, solo per fare qualche titolo, scopriremmo che oltre alla versione “spritz” in cui canti, salti, balli e scherzi gioiosamente per 4 ore nei tuoi concerti, potremmo immaginarti da solo con la chitarra, nel chiuso delle tue stanze, quando ti abbandoni a ricordare, a ripensare nostalgicamente a persone e avvenimenti ormai passati. È così che ti viene la voglia di scrivere lettere e nuove canzoni che completano le gemme della tua corona dorata, fatta di canzoni che rimarranno per tutti sempreverdi sempre pronti a regalare colore alle nostre giornate, con qualunque sentimento ci apprestiamo a viverle? Io ti vedo così, ti immagino debole e forte allo stesso tempo, imbracciare la chitarra e dare parole al tuo cuore, alla tua testa.
Con questo nuovo album spero davvero che tu possa riproporci di nuovo anche le sonorità più sanguigne, quelle da cantare a squarciagola tutto insieme, che in tutta sincerità erano mancate nelle ultime tue produzioni, ci faresti davvero un bel regalo, uno squarcio di luce in questo duro 2020. Dall’alto dei tuoi 71 anni festeggiati il mese scorso - proprio in quel giorno ci siamo sposati io ed Alessandra, 25 anni fa e nella partecipazione per gli invitati c’era una frase di una tua canzone, pensa un po’… - e portati splendidamente, nonostante qualche ritocchino ringiovanente, sai ancora far centro nei cuori di noi innamorati tuoi fans.
Lunga vita my oldfriend Bruce, prenditi cura di te e stammi bene, ti ringrazio ancora per tutto quello che hai scritto e cantato, lo dico anche a nome dei mille e mille tuoi fedeli amici italiani: Our love is real.
Franco Vitelli l’ultimo marmoraro. Stasera il racconto di Ester Marchionne
Per la quinta edizione di “Racconti, la sottile linea rossa”, manifestazione ideata e organizzata dall’Associazione culturale Le Colonne di Sezze, stasera è previsto il racconto della setina Ester Marchionne, giovane laureata in Storia dell’arte presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’ateneo La Sapienza di Roma. La debuttante dott.ssa Marchionne racconterà, partendo dal lavorio di ricerca diventata poi la sua tesi di Laurea magistrale, l’attività artistica di un altro setino purosangue, il marmoraro Franco Vitelli, artista poliedrico che si è specializzato nel corso degli anni nell’attività di composizione di opere marmoree originali e in restauro. Inserendosi nella tradizione degli antichi cosmateschi, fini artisti del sec. XII e XIII che ornarono interi settori della pavimentazione delle più belle chiese di quel tempo con straordinarie opere figurative, il Magister Vitelli si è ritagliato un ruolo da protagonista nazionale nel settore della lavorazione del marmo e di pietre varie, e alternandolo con porfido di vari colori realizza così pregevoli mosaici ornamentali in cui spiccano geometrie con losanghe e triangoli policromi. Di questo e di molto altro, stasera ci racconterà la bella ex-piccola Ester (ndr: sono il suo padrino di battesimo) che, seppur abituata da anni ad esibirsi in pubblico con il Coro Incantu e come attrice nella Sacra Rappresentazione del Venerdì Santo e nelle Compagnia teatrale "Parsifal", ha confidato di sentirsi emozionatissima per questa prima occasione davanti al pubblico di casa. Introdurrà l’evento il direttore artistico de Le Colonne, Giancarlo Loffarelli e sarà presente, emozionatissimo anch’egli, Franco Vitelli. Inizio ore 21.30, ingresso libero. Si raccomanda di rimanere distanziati e di indossare la mascherina.
Festa Santi Patroni, un paese vuol dire non essere soli
Tra le riflessioni che ho scritto in passato sul mio paese, ecco riemergere un articolo che fu pubblicato nell’ormai lontano luglio 2007 nella rubrica “Sezzese” del Portale fotografico setino, sito web gestito da Ignazio Romano.
La ritengo ancora attuale. Cercavo di dire che nel giorno dei Santi Patroni, Sezze, che in passato si fermava – non era permesso neanche impastare e cuocere il pane nei forni molti anni fa, erano chiusi gli uffici pubblici e le attività commerciali, mio padre non andava in campagna e si vestiva elegante – per consentire a tutti di partecipare alle liturgie religiose (si facevano le Prime Comunioni e le Cresime a Santa Maria e c’era la processione con la Statua di San Carlo e il busto argenteo di S. Lidano, accompagnati dalla Banda di Sezze e da tutti i parroci delle altre parrocchie) e alla festa laica, con giochi ed animazione per bambini e musica popolare, anche con cantanti di grido, all’Anfiteatro oltre agli immancabili fuochi d’artificio finali.
Dovremmo tutti fermarci un po’ a riflettere su cos’è diventata oggi la giornata del 2 luglio per noi sezzesi del 2020 e cosa potrebbe essere se noi cittadini fossimo più coesi e com’è in altri paesi, anche vicini al nostro, in cui veramente tutti si fermano un po’ per riunirsi e dare un segnale vivo e vero di comunità.
Perché a Sezze la festa dei Santi Patroni è diventata con gli anni una “festicciola minore”, superata in fasti ed importanza da altri eventi localistici e organizzati da privati? Qualche domanda dovremmo farcela tutti, se davvero siamo ancora, come sembrerebbe, devoti a S. Carlo e a San Lidano, foss’anche solo per ragioni intime che ognuno tiene per sé.
La ripropongo oggi, in occasione della festa dei Santi Patroni di Sezze 2020 in tempo di Coronavirus, che per le note ragioni legate alle esigenze di sanità pubblica sarà ancora di più limitata praticamente a soli eventi per lo più liturgici, con il Vescovo presente alla S. Messa solenne.
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“Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti” – (Cesare Pavese - La luna e i falò).
Il 2 luglio
Durante gli anni in cui ho abitato lontano da Sezze, questi versi di Pavese mi hanno sempre aiutato a sentirmi ancora sezzese, ed a non intaccare in alcun modo quel legame speciale che ognuno di noi ha con il luogo in cui è nato. In questo periodo di migrazioni continue e di precarietà residenziale, oltre che di individualismo esasperato, il valore di sentirsi positivamente e radicalmente incastonato in una ben precisa realtà geografica potrebbe essere percepito come disvalore, come qualcosa di demodée e senza alcuna prospettiva futura. Vivere nello stesso paese è invece, e comunque, una ricchezza per tutti; sia quelli che ci sono nati, sia coloro che vi hanno trovato momentanea residenza.
Non basta questo però per sentirci veramente…una comunità. C’è bisogno di qualcosa di più, un valore aggiunto, per unire di fatto tante e diverse realtà individuali.
A mio parere, oltre al dialetto ed alle tradizioni folkloristico-gastronomiche, quel che unisce veramente le persone di una comunità è la condivisione della memoria storica e la prospettiva di continuare ad essere unita.
Ogni anno ci sono varie ricorrenze che ci riportano a giornate speciali del nostro passato, quelle tipicamente sezzesi: la Sacra Rappresentazione del Venerdì Santo e la Sagra del Carciofo sono da anni imprescindibilmente legate alla storia del nostro paese. Ma sono altre le date che, secondo me, rappresentano il valore aggiunto di Sezze.
Una di queste è il 28 maggio. Non può dirsi sezzese chi non conosce empaticamente Luigi Di Rosa. Appartenere ad una comunità è fondamentalmente sentirsi parte di un tutto, soprattutto con quanti, familiari ed abitanti dell’epoca, hanno sofferto per un’aggressione come quella che ebbe luogo a Sezze il 28 maggio 1976.
L’altra data è il 2 luglio. In questa data, al di là dei propri convincimenti religiosi, i Santi Patroni Lidano e Carlo rappresentano il segno tangibile di una comunità che continua a sentirsi viva. Anche per chi vive il 2 luglio con sensibilità extra-religiosa, i “Due sezzesi” (uno acquisito, l’altro di nascita) sono, e possono continuare ad essere simbolicamente la “bandiera laica” del paese.
Non per niente a Sezze il 2 Luglio è un giorno festivo.
Festa lo è non solo per quelli che, più devotamente, considerando i due Santi il proprio tramite privilegiato verso il Dio cattolico, seguono anche le celebrazioni liturgiche. È festa per tutto il paese. Dovrebbe esser festa per tutta Sezze.
Da qualche anno invece, mancano, a mio avviso, i segni tipici e tangibili di una vera festa, quella fatta di persone, suoni, colori e sapori inconfondibili, quella che dovrebbe riuscire a coinvolgere veramente tutto il paese. Il 2 luglio potrebbe essere l’occasione per far prevalere l’idea di unità e di valore sociale condiviso; il giorno ideale per invogliarci tutti a mettere da parte le diversità individuali, le differenti colorazioni politiche, le storiche conflittualità sociali oltre agli antipatici e mai sopiti personalismi. Sarebbe bello che l’anno prossimo, in occasione dei festeggiamenti dei SS. Patroni, si deponessero finalmente “le armi” - come avveniva nell’antica Grecia durante i giochi Olimpici – e tutta la comunità si ritrovasse unita in una sola festa, della durata di più giorni, in cui, oltre allo spazio per la doverosa memoria religiosa, ci fosse lo spunto per mettere insieme il meglio delle risorse della comunità. La sfida sarebbe quella di provare a regalare ai cittadini qualche giornata serena all’insegna del divertimento e dello spettacolo, per rifondare, visto che ce n’è tanto bisogno, la nostra più sana appartenenza al paese.
Ognuno sarebbe libero di partecipare attivamente e di assistere o no agli eventi. Ma in quei giorni la festa del paese dovrebbe essere una, solo una, seppur diversificata in più eventi.
Non ci dovrebbe essere spazio per fughe individuali. Ci sarebbe bisogno che tutti noi rinunciassimo al nostro orticello privato, solo per un giorno, per fare spazio a tanti altri sezzesi e partecipare tutti, nuovi e vecchi nel nome del paese che ci unisce, alla sfida di condividere almeno qualche giornata di festa vera.
Potrebbe essere un modo originale per re-interpretare il “Setia plena bonis…”
Non perdono e tocco
Cyrano de Bergerac. Chi non ha mai sentito parlare del celebre protagonista della commedia teatrale scritta dal drammaturgo francese Edmond Rostand (1868-1918), pubblicata nel 1897 e ispirata alla figura storica di Savinien Cyrano de Bergerac, uno dei più estrosi scrittori del seicento francese? L’opera, un classico del genere in 5 atti, ancora oggi è messa in scena da grandi produzioni teatrali e da compagnie con famosi attori nel ruolo di Cyrano, anche nella versione in italiano, vanta diverse versioni cinematografiche e messe in musica.
Cyrano de Bergerac è l’eroe riconoscibile per il suo lunghissimo naso, ricordato per la sua abilità da spadaccino e per essere un poeta dalla vita particolarmente vivace. Nell’opera viene raccontato soprattutto per il suo amore non ricambiato verso Rossana e per la sua passione per i giochi di parole, con i quali si diverte a prendere in giro i suoi molti nemici, soprattutto potenti e prepotenti. Citatissimo, ed atteso dagli spettatori in sala durante le rappresentazioni in teatro, il celeberrimo monologo di Cyrano «Ma poi che cos'è un bacio? Un giuramento fatto poco più da presso, un più preciso patto, una confessione che sigillar si vuole, un apostrofo rosa messo tra le parole "T'amo". Un segreto detto sulla bocca, un istante d'infinito che ha il fruscio d'un'ape tra le piante, una comunione che ha gusto di fiore, un mezzo di potersi respirare un po' il cuore e assaporarsi l'anima a fior di labbra».
A volte, alcuni protagonisti della letteratura acquisiscono un rinnovato vigore, soprattutto quando qualche autore moderno prova a dedicare loro una sorta di omaggio o tributo postumo, magari solo per togliere polvere e ragnatele, a sottolineare una qualche caratteristica di comportamento attualissima. Quando a cimentarsi con tali eroi sono i cantautori nazionali, sarà anche per il contorno musicale che riescono a tessere, sarà per il carisma da star di cui godono tra gli appassionati, spesso ne escono fuori quadretti incorniciati per bene, come saprebbe fare un pittore o un fotografo ritrattista, rinnovandone i tratti e destinando la canzone ad un pubblico più giovanile.
Francesco Guccini e Roberto Vecchioni, in tempi e modi diversi, ognuno secondo stile peculiare, si sono avvicinati alla figura di Cirano.
Rossana di Vecchioni, dall’album Blumun del 1993, ci parla del tratto più romantico di Cirano, quello dell’amore per sua cugina Rossana.
“Rossana, Rossana, non ce la faccio più a vivere col cuore dentro il naso; lontana, lontana bellezza che eri tu”… “Io sono quello di ieri che ti cantava nella notte e ho nelle mani soltanto stelle rotte: l'ombra perduta tra i rami che non potevi mai vedere, mentre quell'altro saliva e ti faceva l'amore, l'amore, l'amore...”.
Un Cirano cantato mentre è assorbito e perso nella sua delusione in amore, superato nello stesso sogno di conquista femminile da un altro spasimante, che probabilmente è già riuscito già a cogliere il fiore e le attenzioni di Rossana. Il testo di Vecchioni rimane confinato in questa dimensione, un’istantanea baroccheggiante, in cui il protagonista è sospeso tra speranza di innamoramento e successiva delusione.
Cirano di Guccini, inserita nell'album "D'amore di morte e di altre sciocchezze" del 1996 è stata scritta dal vecchio di Pavana (che proprio il 14 giugno festeggerà la ottantesima candelina) su precedente testo di Giuseppe Dati e musica di Giancarlo Bigazzi, per dare a Cesare quel che è di Cesare. Ma lo stile gucciniano nella canzone c’è tutto, segno evidente che la revisione e la produzione finale del brano spettano sicuramente a lui.
Il cantautore de La Locomotiva è attratto da par suo soprattutto da un'altra dimensione della storia, con finalità e rilettura più civica e sociale del citoyen Cyrano, ampliando il registro narrativo rispetto a quello di Vecchioni.
In questo Cirano colpisce soprattutto la rabbia dell’uomo nei confronti di alcuni mali atavici della vita sociale dell’epoca (anche se per molti versi è davvero molto contemporaneo): i difetti eterni di tutte le società sono le troppe e diverse ingiustizie partorite dal potere e dai diversi governanti, il popolo degli arrivisti. Una canzone con una presa di posizione etica precisa e circostanziata, come ha sempre fatto Guccini. L’impareggiabile testo, scritto tutto in metrica a rima baciata con una sequenza continua che fa drizzar la pelle, dopo un preludio introduttivo, fin da subito alza il tono per attaccare i colleghi (sia di Cirano che di Guccini), aprendo la strada ad uno sfogo con tono tanto polemico quanto centrato nell’obiettivo: “Venite pure avanti poeti sgangherati, inutili cantanti di giorni sciagurati, buffoni che campate di versi senza forza avrete soldi e gloria, ma non avete scorza; godetevi il successo, godete finché dura, che il pubblico è ammaestrato e non vi fa paura e andate chissà dove per non pagar le tasse col ghigno e l' ignoranza dei primi della classe”.
Subito dopo è la volta dei protagonisti attivi della politica ad esser presi di mira, che sono dipinti e caratterizzati dai medesimi vecchi vizi di ogni tempo: “Facciamola finita, venite tutti avanti nuovi protagonisti, politici rampanti, venite portaborse, ruffiani e mezze calze, feroci conduttori di trasmissioni false che avete spesso fatto del qualunquismo un’arte, coraggio liberisti, buttate giù le carte tanto ci sarà sempre chi pagherà le spese in questo benedetto, assurdo bel paese”. Sembra proprio che il cantautore bolognese parli del più recente ed attuale presente del panorama politico, prendendosela con i peggiori rappresentanti eletti del popolo, attaccando anche la protervia del potere di ogni colore, quella di voler controllare anche le trasmissioni tv e la stampa servendosi di personaggi servili, pronti a cambiar padrone col rovesciamento di monarca. A pensarci bene, questo Cirano ricorda molto, per i toni usati contro il potere, un altro eroe letterario, anch’egli protagonista di un’altra ottima canzone di Guccini: Don Chisciotte <il "potere" è l'immondizia della storia degli umani e, anche se siamo soltanto due romantici rottami, sputeremo il cuore in faccia all'ingiustizia giorno e notte: siamo i "Grandi della Mancha", Sancho Panza... e Don Chisciotte !>
Subito dopo ecco la discesa verso il secondo ritornello, quello che tutti i fans conoscono e cantavano a memoria nei concerti del Guccio e che adesso canticchiano ancora ascoltandola in cuffia: “Non me ne frega niente se anch'io sono sbagliato, spiacere è il mio piacere, io amo essere odiato; coi furbi e i prepotenti da sempre mi balocco e al fin della licenza io non perdono e tocco, io non perdono, non perdono e tocco!”. Un attacco diretto ai furbi e ai prepotenti, ma anche una difesa preordinata: sarò sbagliato anch’io ma non la perdóno a nessuno, sotto a chi tocca! Poi, cambiando la melodia, arriva un ponte con melodia più triste rispetto al canto libero delle prime strofe, che poi sarà ripreso con altre invettive, ed ecco il Cirano innamorato e triste:
“Ma quando sono solo con questo naso al piede che almeno di mezz' ora da sempre mi precede si spegne la mia rabbia e ricordo con dolore che a me è quasi proibito il sogno di un amore; non so quante ne ho amate, non so quante ne ho avute, per colpa o per destino le donne le ho perdute e quando sento il peso d' essere sempre solo mi chiudo in casa e scrivo e scrivendo mi consolo, ma dentro di me sento che il grande amore esiste, amo senza peccato, amo, ma sono triste perché Rossana è bella, siamo così diversi, a parlarle non riesco: le parlerò coi versi, le parlerò coi versi...”.
Un Cirano intimo, romanticamente deluso dall’impossibile rapporto con Rossana, con la quale non riesce più neanche a parlare, per cui preferisce dedicarle versi, nonostante abbia avuto tante donne. Poi eccolo riprendere l’invettiva verso altri personaggi pubblici che animano la vita sociale nella Francia di qualche secolo fa, ma poi Guccini aggiunge qualcosa per sgombrare il campo a dubbi e lasciare intendere che è dell’Italia moderna che vuol parlare: “tanto ci sarà sempre chi pagherà le spese in questo benedetto, assurdo bel paese”. Con il “Belpaese” si intende classicamente l’Italia, non ci sono dubbi. E poi eccolo prendersela con il clero, quei sacerdoti impegnati a vendere la promessa di una vita eterna nell’aldilà lontano con un Dio infinito bene, ma che loro stessi tradiscono con turpi azioni in questo mondo, non riuscendo a sentire quello stesso Dio nell’intimo del proprio cuore. E poi ancora un’altra bella botta anche agli integralisti materialisti, quelli che non riescono proprio a vedere le cose da altro punto di vista, più alto…
“Venite gente vuota, facciamola finita, voi preti che vendete a tutti un'altra vita; se c'è, come voi dite, un Dio nell' infinito, guardatevi nel cuore, l'avete già tradito e voi materialisti, col vostro chiodo fisso, che Dio è morto e l'uomo è solo in questo abisso, le verità cercate per terra, da maiali, tenetevi le ghiande, lasciatemi le ali; tornate a casa nani, levatevi davanti, per la mia rabbia enorme mi servono giganti”.
E poi la celebre chiusura, un manifesto di libertà per gli uomini che non si sentono mai servi, urlato con rabbia da quelli che non riescono proprio rinunciare al vizio di voler a tutti i costi ragionare con la propria testa:
“Ai dogmi e ai pregiudizi da sempre non abbocco e al fin della licenza io non perdono e tocco, io non perdono, non perdono e tocco”.
Guccini, come sempre del resto, parla chiaro e stavolta ne ha per tutti.
E se qualcuno dovesse sentirsi assolto, sappia che siamo tutti coinvolti.
il link della canzone
https://www.youtube.com/watch?v=7M7wDqZGq94
La statua del Papa (che non c'è)
La storia della nostra amata Sezze, soprattutto quella del periodo storico in cui lo Stato Pontificio è stato l’Autorità civile e religiosa, scritta a caratteri scolpiti sui marmi delle nostre chiese, lascia tracce di episodi antichi a futura memoria, sconosciuti a studiosi e cittadini, che ci invitano a riconsiderare il presente sui valori comuni condivisi e a conservare queste testimonianze.
In questo tempo di quarantena da Covid19, la navigazione online ci ha aiutato a resistere alla clausura forzata e ad approfondire i nostri hobby, cercando risposte a curiosità personali.
Quanti Papi, nei due millenni di storia della Chiesa cattolica, sono stati personalmente in visita a Sezze?
Da questa domanda sono partito, la materia mi affascina e pur non essendo uno storico - e mi scuso in anticipo per eventuali imprecisioni, errori nel presente testo o incompletezza - le ricerche a partenza da Google, senza la necessità di frequentare fisicamente archivi e biblioteche, offrono adesso un mare magnum utilissimo a perder tempo ma anche a scovare mille informazioni vere, da inseguire, approfondire e ricollegare tra di loro (Ringrazio personalmente tutti i curatori dei siti internet e gli autori dei testi citati).
Nel sito internet della Compagnia dei Lepini, nella pagina Cenni storici di Sezze è così riportato “Diversi papi soggiornarono a Sezze e a volte per lungo tempo: Gregorio VII nel 1073, Pasquale II nel 1116, Lucio III per circa un anno nel 1182”. Do per buona la notizia pur non avendo trovato citata la fonte bibliografica e aggiungo che anche di Sisto V e Sisto VI si ricordano le rispettive visite a Sezze, dicono finalizzate a meglio controllare dall’alto della collina lo stato dei lavori di bonifica avviati nella olim palus pontina.
Trovo interessanti notizie su queste ultime visite papali nella rivista online Lepini Magazine e su www.setino.it di Ignazio Romano, in cui sono ancora consultabili articoli pubblicati tempo fa dai concittadini appassionati Roberto Vallecoccia e Vittorio Del Duca.
“È fama che dalla cima di un colle rimpetto alla città e presso il monte Trevi si mettesse a riguardare la palude, che resta tutta esposta alla vista; ed un sasso, sopra cui dicesi che il Papa (Sisto V) si ponesse a sedere, porta anche al presente il nome di Pietra di Sisto, dal volgo altresì detta Sedia del Papa” (De bonificamenti delle terre pontine - opera ottocentesca di Nicola Nicolai).
Anche il successore Papa Pio VI, anni dopo, si ritrovò più volte a Sezze su quella pietra improvvisata sedia papale, punto di osservazione privilegiato sulla bonifica ancora in corso. Si racconta che l’ultima visita di Papa Braschi ci fu nel 1798, poco prima della sua morte (quest’ultima dovrebbe essere l’ultima visita ufficiale a Sezze di un Romano Pontefice) allorché, una volta catturato dai francesi, chiese di vedere per l’ultima volta lo stato di avanzamento dei lavori di bonifica – apparentemente quasi conclusa - dei territori di Sezze, Priverno e Terracina. Questo momento è stato riprodotto nella stampa “Les Marais Pontains” di Raphael Morghen, la cui matrice è conservata presso il British Museum di Londra.
Proseguendo nel viaggio da internauta mi imbatto in una pagina di un sito internet dedicato alla Cattedrale di Sezze, forse non più attivo, in cui trovo un riferimento ad un altro Papa che ha visitato il nostro Paese e all’improvviso mi torna alla mente un lontano colloquio con il mio amico, artista ed appassionato di cimeli e stampe antiche, Franco Vitelli.
In questa pagina web http://web.tiscali.it/s.maria.sezze/s_filippo.html la fonte del testo riportato è precisata in calce e fa riferimento ad una pubblicazione “La cattedrale di Sezze” di Luigi Zaccheo, che a sua volta cita tra la bibliografia consultata, alcuni testi più antichi di Marocco e Cerroni.
Entrando nella Cattedrale di Santa Maria, e progredendo sulla navata di sinistra, sulla parete laterale del piano sopraelevato del transetto, troviamo ancora oggi un altare barocco dedicato a San Filippo Neri, con al centro una pala d’altare del sec. XVIII raffigurante il Santo raccolto in preghiera (non è citato l’autore), con un grande angelo che lo tocca in segno di protezione e due piccoli angeli seduti che hanno un giglio in mano.
San Filippo Neri era vissuto a Roma nella metà del 1500 e si era distinto per la sua incessante opera di carità da parroco soprattutto nell’assistenza di poveri e malati. Canonizzato nel 1622, è passato alla storia con il nome di Santo della gioia e anche per il linguaggio colorito con cui si lasciava andare nelle conversazioni con i tanti giovani che ospitava, rifocillando ed educandoli alla fede, nel suo Oratorio di S. Maria in Vallicella (“State buoni se potete…”). Davanti a quell'altare schiere di bambini di Sezze della mia generazione - e anche prima - si sono sempre soffermati non tanto per pregare o per ammirare il quadro, ma perché attratti dall’urna in cui erano conservate le spoglie di San Leonzio, con i suoi abiti in stile militare decorati finemente e la piccola spada antica, che risultano essere state donate dal Cardinale Pietro Marcellino Corradini alla sua città natale (chissà che fine ha fatto San Leonzio ora, non l’ho più ritrovato al solito posto qualche mese fa quando ho provato a incuriosire mia figlia Sofia).
Proprio accanto a questo altare vi è ancora una lapide in marmo bianco con una scritta in latino che ci ricorda la presenza di un Papa a Sezze, Benedetto XIII (al secolo Pietro Francesco Orsini, 245º vescovo di Roma e papa della Chiesa cattolica dal 1724 al 1730), presente al rito solenne avvenuto proprio su quell’altare dedicato a S. Filippo - di cui il papa era devotissimo - il 26 Maggio 1727.
AETERNAE MEMORIAE BENEDICTI XIII ORD. PRAED. PONT. MAX QVOD SETINAM ECCLESIAM SVO SPLENDORI RESTITVERIT HOC TEMPLUM PONTIFICIA MAIESTATE ILLVSTRAVERIT REM DIVINAM IN EO SOLEMNI RITV DIE XXVI MAH A. D. MDCCXXVII PEREGERIT ET CONCIONEM E SVGGESTV INTER MISSARVM SOLEMNIA IN S. PHILIPPI NERI LAVDEM HABVERIT CAPITVLVM ET CANONICI OB INGENTIA ERGA SE BENEFICIA AC SINGVLAREM OPTIMI PONTIFICIS CLEMENTIAM POSVERE .
Cerco in rete altri dati su questo Papa e scopro che anni prima era stato Arcivescovo di Benevento (Enciclopedia Treccani) e che da Papa ebbe a tornare per due visite pastorali in quella città: la prima tra Marzo e Maggio del 1727 (l’altra nel marzo-giugno 1729) in cui ebbe anche l’onore di inaugurare la Chiesa dedicata a S. Filippo Neri, di cui aveva iniziato anni prima la costruzione (ndr: attualmente il pastore metropolita della Diocesi beneventana è S.E. Arcivescovo Felice Accrocca, nativo di Cori, sacerdote diocesano e parroco in varie parrocchie della Chiesa pontina, anch’egli presente più volte a celebrazioni liturgiche nella Cattedrale setina).
Evidentemente Benedetto XIII, proprio di ritorno dal faticoso viaggio sulla strada verso la Capitale, aveva già preventivato di fermarsi a Sezze, lo deduco da quanto avvenne in seguito. Nel sito dell’Archivio Capitolare di Sezze, in seguito scopro che “Con un decreto della Congregazione dei vescovi del 30 settembre 1986 la cattedrale di S. Maria - già decorata, da Benedetto XIII (1724-1730) del titolo di basilica, distinzione rinnovata nel 1808 dal Capitolo lateranense - ha assunto il titolo di concattedrale”. Un atto ufficiale di quel Pontefice che aveva insignito la nostra bellissima cattedrale del titolo di Basilica.
Scopro inoltre che le due bolle pontificie originali di Benedetto XIII, inizialmente conservate dai canonici della Cattedrale, risulterebbero ancora conservate presso l’Archivio di Stato di Latina, pervenute per regolare versamento dall’Archivio storico comunale di Sezze e mai reclamate dalla Chiesa dopo il 1870.
Ed ancora, seguendo altri link interessanti, mi imbatto in un’altra notizia su Benedetto XIII, che era dell’Ordine Domenicano, riportata sul sito di Avvenire nel 2017: “A Roma nella sede del palazzo del Laterano il 24 febbraio scorso si è chiusa alla presenza del cardinale vicario Agostino Vallini la fase diocesana della causa di beatificazione. A dichiararlo servo di Dio, su spinta dei suoi confratelli domenicani, è stato nel 1931 Pio XI”. Tra qualche anno, chissà, la Chiesa potrebbe innalzare agli onori degli altari questo Papa, pugliese di nascita e che fu sepolto dapprima nella Basilica Vaticana per poi essere traslato anni dopo nella chiesa romana di S. Maria in Minerva.
Sotto la stessa notizia, una nota biografica: “Aveva 81 anni Benedetto XIII quando il 21 febbraio 1730 morì a causa di una febbre: spirò santamente e per non disturbare il popolo romano impegnato a festeggiare l’ultimo giorno di Carnevale dispose che non venissero suonate le campane a morto. I suoi resti mortali dal 1733 riposano nella Basilica romana di Santa Maria sopra Minerva, affidata da secoli ai domenicani”. Un Papa particolare questo Venerabile Benedetto XIII, non c’è che dire.
Tornando alla Cattedrale di S. Maria (e al testo del Prof. Zaccheo), dall’altro lato dell’altare di S. Filippo Neri c’è un’altra lapide, scritta sempre in latino, che forse è ancor più interessante della prima e che ricorda l’episodio di cui avevo parlato con il Magister Vitelli.
CVM ORDO NOBILIVM SETINORVM IMPENSA MILLE NVMMVM ARGENTI BENEDICTO XIII ORD. PRAED. PONT MAX OB SETINAM ECCLESIAM DECRETIS AMPLISSIMIS ORNATAM STATVAM IN FORO PONERE CENSVISSET EIVS LOCO IVSSV EIVSDEM PONTIFICIS HVIVSMODI MONVMENTA MODESTE RECVSANTIS HOC SACELLVM IN HONOREM S. PHILIPPI NERII ELEGANTI OPERE EXTRVXIT CVIVS ALTARE IDEM PONTIFEX DIE XXV MAH A. D. MDCCXXVII CONSECRAVIT AC SINGVLIS DIEBVS FVTVRIS TEMPORIBVS PRIVILEGIO PERPETVO PRO DEFVNCTIS DONAVIT [foto n. 4].
Sintetizzando, i nobili di Sezze di quel tempo, per omaggiare la figura del Pontefice e per ricordare a futura memoria la Sua presenza nel nostro paese a Maggio del 1727, avevano pensato e prospettato di far costruire e posizionare proprio nel centro cittadino una statua dedicata allo stesso Benedetto XIII. Il Papa, che celebrò la S. Messa proprio su quell’altare “assistito da vari prelati, da generali di ordini, e da ben dieci tra arcivescovi e vescovi” e che dopo il Vangelo ebbe a declamare una magnifica orazione al Santo (S. Filippo Neri) concedendo speciale indulgenza, fe’ il gran rifiuto con un gesto forse non consueto, ma che è rimasto scolpito nella storia e nel marmo della Cattedrale. Aveva convinto i nobiles setini a devolvere la somma prevista per il posizionamento della statua (che non è mai esistita) destinandola ad abbellire con marmi proprio quell'altare in onore di San Filippo Neri, che egli stesso consacrò definitivamente con la Sua presenza in quei lontani giorni di Maggio, A.D. MDCCXXVII.
Ora, a distanza esattamente di 283 anni, sempre a Sezze e nel Maggio, un’altra statua – stavolta dedicata al co-Patrono S. Lidano e destinata ad occupare il centro della piazzetta del murodellatèra a qualche decina di metri dalla stessa Cattedrale – è tornata al centro dell’attenzione delle cronache locali.
La statua è di un donatore e vuole metterla proprio lì. Ma lo spazio in cui vorrebbe posizionarla è pubblico. Il cantiere è chiuso da un anno per irregolarità. Il Sindaco ha sostenuto il progetto e vorrebbe portarlo a termine. Alcuni cives setini difendono l’idea che il Belvedere sulla pianura Pontina rimanga così com’è sempre stato, libero, anche da statue.
Dovrà arrivare Papa Francesco a Sezze per dare a tutti un buon consiglio?
Altare di S. Filippo
“Les Marais Pontains” di Raphael Morghen
Statua al Belvedere, se ne parla ancora
In piena pandemia da Coronavirus, Anno Domini 2020, a quasi dodici mesi esatti dall’apertura in sordina del cantiere al Belvedere di S. Maria per posizionare una statua di S. Lidano, poi richiuso da un provvedimento sospensivo dell’Ufficio Tecnico comunale, ecco che si torna a parlare del “murodellatèra”.
Stavolta però non è il Sindaco ad intervenire, né il dipendente comunale Responsabile del procedimento - ancora affaccendato in una quadratura del cerchio da azzeccacarbugli -, né il Comitato spontaneo nato a difesa del belvedere libero (non contro la statua in sé), che da subito si è opposto al deturpamento del luogo.
Ad entrare a gamba tesa sull’annosa irrisolta questione del monumento al Santo patrono è adesso il massimo esperto setino di archeologia e di storia antica, colui che per decenni è stato il custode e narratore di ogni luogo o personaggio setino del passato, ideatore del museo comunale e delle numerose lapidi a memoria disseminate nel paese.
Il Prof. Luigi Zaccheo, in un articolo su Nuova informazione Anno XXIV- n. 1 di Gennaio 2020, rivista diretta editorialmente da suo figlio ma da sempre megafono della poliedrica attività dell’ex-preside, ha fatto sapere di essere favorevole al progetto dell’installazione della statua di S. Lidano al Belvedere.
Il professore, quale insigne studioso da sempre attento ad ogni argomento riferito alla storia di tutta la regione, in particolare alla conservazione di beni artistici, archeologici e paesaggistici del nostro paese, ha tutto il diritto di esprimere il proprio parere sulla diatriba che negli ultimi mesi ha suscitato l’interesse di molti concittadini. Però da lui ci si sarebbe aspettato un commento più tecnico, circostanziato e completo, oltre che ricordare, da bambino santamariano, anche i molti giochi d’infanzia e il tempo passato in quel belvedere libero (chissà come avrebbe giocato in quello stesso spazio se altri antichi amministratori non lo avessero preservato da monumenti od orpelli…).
Mi permetto di annotare qualche elemento che emerge, tra gli altri, nell’articolo citato.
- Tra gli argomenti portati a giustificazione della sua posizione (utilizzando perifrasi e termini molto simili a quelli utilizzati ufficialmente dal proponente/donatore della statua), il professore si lascia andare ad un consiglio, riportandolo tra parentesi: “Il realizzando monumento a S. Lidano (mi auguro che il Consiglio Comunale si esprima in modo favorevole) col passare degli anni diventerà un valore artistico per tutta la città di Sezze”.
- Poi en passant una riflessione molto personale: “Avevo in animo, unitamente ad alcuni amici, di finanziare un monumento (modesto per dimensioni) in onore del grande poeta latino Caio Valerio Flacco nativo di Sezze e vissuto nel I sec. d.C. da sistemare in una piazza del centro storico. La non edificante vicenda del realizzando monumento in onore di S. Lidano (occorre ripeterlo finanziato interamente da un cittadino di Sezze, pertanto senza oneri per la pubblica amministrazione) mi ha fatto ricredere e purtroppo ha gelato il mio entusiasmo iniziale e anche quello dei miei amici”.
- Infine, chiosando scrive ancora “Ho l’impressione che l’Amministrazione comunale di Sezze abbia verso il munifico cittadino donatore un atteggiamento di rifiuto preconcetto, facendo proprio il bellissimo verso di Virgilio: <Timeo Danaos et dona ferentes> (Temo i Danai – setini – anche quando mi portano i doni”. A parte che, rimanendo nella storica e dotta citazione, il cavallo donato dai Greci (con Ulisse e gli altri greci nascosti dentro) fu la vera rovina di Troia, la causa della sconfitta definitiva, ma il professore non ricorda bene che il munifico concittadino, risulta dagli atti presentati e motivo di un secondo passaggio correttivo in giunta, ha aperto il cantiere autonomamente e rimarrà l’unico proprietario della statua, non si tratta di un dono.
Andreottianamente, a pensar male si fa peccato ma spesso ci si azzecca.
Sembrerebbe infatti più un articolo “sollecitato”, quasi un parere di parte a sostegno dello sblocco dei lavori, più che una libera riflessione fondata su argomenti storici e tecnico-urbanistici. Nessun cenno dell’esperto studioso sul valore paesaggistico del Belvedere libero così com’è sempre stato, fin dalla sua infanzia ed anche prima, né sul mancato rispetto del progetto nei confronti della Legge Regionale, il Piano Regolatore per il centro storico, lo stesso habitat storicamente preservato. Neanche un riferimento al fatto che il donatore aveva aperto un cantiere senza che fosse stato autorizzato ad occupare (e trasformare) un luogo pubblico così caro a tutti i sezzesi, proprio adiacente all’antico Duomo (deturpato anch’esso, in altri tempi). E poi, il prof. Zaccheo sa già che il Consiglio comunale sta per essere chiamato ad esprimersi su una prossima delibera risolutiva? E questa sarebbe già una notizia, visto il silenzio ufficiale dell’Amministrazione sulla presunta delibera in lavorazione più volte annunciata che arriverebbe proprio nel bel mezzo della tempesta pandemica.
La legalità del percorso urbanistico amministrativo è taciuta, una dimenticanza sospetta sacrificata sull’altare della presunta bellezza che avvolgerebbe la piazzetta (il murodellatèra pare bello solo se ci sarà la statua) posizionando non una statua antica recuperata in qualche scavo archeologico, ma una statua moderna. Eppure il professore da ex consigliere comunale con ruolo attivo – oltre che da chairman e relatore protagonista nelle innumerevoli occasioni pubbliche ed editoriali dedicate ai Santi Patroni - chissà quante volte si sarà opposto in passato a progetti urbanistici farlocchi ed abusivismi vari durante la sua esperienza tra gli scranni di Palazzo Diaz.
E ancora, il prof. Zaccheo ci tiene a far sapere ai suoi lettori che aveva in animo di donare egli stesso (con amici) un altro monumento a Sezze, per abbellire/deturpare un’altra piazza del centro storico e ricordare un setinus illustre.
Come a dire “Se passa Lillo, passa puro Caio”. Sicuramente, per il dichiarato dono della statua a Caio Valerio Flacco (setinus ?), si sarebbe attivato un percorso più legale, più partecipato e con i doverosi preliminari passaggi nelle commissioni consiliari competenti e più coerenti col Piano Regolatore...
Adesso però l’imperativo è quello di trovare la soluzione al pastrocchio di progetto e del cantiere di ruggine e monnezza che da Maggio 2019 ha stravolto il murodellatèra negando ancora oggi l’affaccio verso la pianura Pontina di tutti noi sezzesi, ex-santamariani e non. Questa statua s’ha da mettere, Zaccheo dixit.
Così va il mondo, sempre più spesso in politica si decide nelle stanze segrete e si marcia compatti; poi, di fronte a disarmoniche scorrettezze amministrative acclarate dagli stessi uffici tecnici del Comune, si invoca l’aiuto dei senatores e si chiamano in battaglia opliti e companeros di prima linea, per votare compatti e salvare capra e cavoli. In nome del sempre potente connubio di potere tra politica e religiosità di facciata che ha sempre guidato il paese, si prova l’indicibile, il salto mortale triplo carpiato all’indietro, per provare a togliere le castagne dal fuoco all’Amministrazione, benedire il tutto con un voto in Consiglio (mai interessato ufficialmente della questione finora) e inaugurare l’ennesimo monumento, non richiesto vox populi ma “donato” perché ritenuto necessario a rinnovare la bellezza del luogo e alla maggior gloria di qualcuno, non certo di San Lidano che in gloria Dei ci dovrebbe esser già.
Verso quel luogo di speranza e sogni
Qualche giorno fa, in questi tempi di quarantena in cui è piacevole riascoltare la nostra musica preferita, ho seguito un appassionante torneo on line, un sondaggio tra gli appassionati per stabilire quale fosse la più bella canzone di Bruce Springsteen.
Tralasciando i turni preliminari, in semifinale sono arrivate le 4 favorite d’obbligo: Thunder road, Born to run, Jungleland e Badlands, vere pietre miliari del repertorio del grande Bruce, born in New Jersey (USA) il 23 settembre 1949.
Al termine delle votazioni del pubblico la canzone vincitrice è risultata Thunder road, prima traccia dell’album Born to run del 1975, immancabile nei concerti dal vivo, vero e proprio inno di un’intera generazione di statunitensi, e non solo. Anche le altre tre bellissime canzoni, notavo tra me e me, appartengono al primo repertorio del giovane Bruce, essendo state scritte ed inserite, le altre due sopracitate in ordine nello stesso lavoro del 1975, mentre la quarta in Darkness in the edge of town del 1978.
Cosa voglia dire questo lo lascio ipotizzare e giudicare ad ognuno dei fans, io ho una mia opinione ma non è questo l’argomento principale di cui volevo scrivere.
C’è però un’altra canzone del vastissimo repertorio del Boss (si parla di 297 opere, testi e musica, oltre a qualche perla regalata ad amici colleghi) che mi emoziona sempre di più ad ogni ascolto e che in questo periodo di riflessioni forzate mi fa bene.
Land of hope and dreams (Terra di speranza e sogni) è una canzone scritta nel 1999 e che gode di una particolarità: pur essendo stata eseguita e cantata dal vivo più volte con la E Street Band (la storica band di Springsteen), e pubblicata come CD in Live in New York City (2001), non era mai stata inserita in un album di studio, fino al 2012, quando è diventata la traccia n. 10 dell’album Wrecking Ball.
Ma cosa ci raccontano le parole di questo testo che amo visceralmente (la musica davvero ispirata e trasportante, sicuramente il miglior brano di Bruce degli anni duemila) e che sembra anche un po’ la continuazione ideale della giovanile Thunder road, inno/invito a non arrendersi mai e a credere sempre nella possibilità di poter cambiare la propria vita, risollevandosi dai primi fallimenti?
Se proviamo ad ascoltarla in questi giorni di fobia da pandemia, sembra essere stata scritta per l’occasione. È un accorato invito di un uomo per la sua donna a salire insieme su di un treno già lanciato sui binari (di nuovo il cammino già di Born to run e di Thunder road) verso non si sa dove, per arrivare in una terra da cui è certo che non si tornerà più indietro (You don't know where you're goin', but you know you won't be back). Bisogna far presto, potranno scegliere e portare solo poche cose, le migliori e necessarie, abbandonando per sempre tutte le altre, per correre verso un posto in cui continuare la vita. A questo punto l’uomo fa una vera e propria dichiarazione d’amore e di speranza con la strofa che precede il ritornello (Well, I will provide for you yeah, and I will stand by your side you'll need a good companion, darlin' for this part of the ride. You leave behind your sorrows yeah, this day will be the last tomorrow they'll be sunny skies and all this darkness past). “Avrò cura di te e starò dalla tua parte. Avrai bisogno di un buon compagno, mia cara per questa parte del viaggio, làsciati alle spalle i tuoi dolori, questo giorno sarà l'ultimo, domani saranno cieli splendenti e tutta questa oscurità ormai passata”. Ecco lo Springsteen che preferiamo, quello che ci guida regalandoci testi metafisici, a metà tra Antico Testamento e sogno americano, versi di valore assoluto, scritti in forma di poesia pura. Ma non sarà un viaggio di nozze, una vacanza senza pensieri di prima classe e pacchetto tutto completo. C’è tutto un popolo a bordo dello stesso treno, altri uomini e donne che scappano da una situazione divenuta irrespirabile con la speranza di poter ricominciare a vivere altrove.
“Well, this train carries saints and sinners, this train carries losers and winners, this train carries whores and gamblers, this train carries lost souls” Questo treno porta santi e peccatori, perdenti e vincitori, prostitute e giocatori d'azzardo ed anime morte. Là dove si arriverà le campane della libertà stanno suonando, i sogni non saranno ostacolati e la fiducia sarà ricompensata.
Non sembrano parole simili a quelle che leggiamo in questi giorni sui giornali, scritte da pensatori o filosofi contemporanei, che ci invitano ad avere speranza, a ragionare come comunità (il treno nella canzone), in cui tutti devono fare la propria parte (vincitori, vinti, prostitute ecc.) perché ci si può salvare solo tutti insieme? E poi, l’invito a riprogrammare il nostro futuro, sapendo già che il mondo, anche il nostro mondo locale, non potrà più essere come prima? E il treno che ci porterà in un luogo migliore di quello che non rivedremo mai più (quello pre-Coronavirsu)? A me sembra uno dei migliori Springsteen di sempre, ispirato, profetico e visionario come solo lui sa essere.
Cos’altro aggiungere? Penso ad un’ultima cosa,: sarà che stiamo tutti vivendo questa quarantena di pari passo con la Quaresima, sarà che i riti e le liturgie comunitarie della settimana Santa quest’anno saranno insoliti e per lo più senza sacramenti, isolati come siamo e lontani dalle nostre chiese di comunità, sarà che anche il Papa ci invita a vivere questo momento in cui Dio sembra essere assente, sordo alle nostre preghiere, per riflettere sulle cose veramente essenziali nella nostra vita… Una suggestione personale: io in questa canzone ci vedo anche (mi perdoni l’amico di sempre Bruce se mi prendo questa licenza) il percorso della Chiesa terrena. Quella fatta di uomini e donne, di santi e peccatori, di prostitute e giocatori d’azzardo, che corre verso la mèta, la Salvezza, l’unica cosa che conta per i veri cristiani: Cristo risorto. C’è posto per tutti a bordo di questo treno da dove si intravedono i campi in cui si riversa la luce del Sole e si sentono le campane della libertà suonare (…where sunlight streams… bells of freedom ringing).
Buon ascolto e Buona vera Pasqua!!